Filippo Penati (Foto LaPresse)

Penati ci spiega perché politica e partiti sono subalterni alle procure

David Allegranti

Il processo sul sistema Sesto iniziato nel 2011. "Un avviso di garanzia non è una condanna, i giornali lo capiscano"

Roma. “Questa storia cominciò alle 7 del mattino del 20 luglio 2011. Suonarono al citofono di casa mia, era la Guardia di Finanza. Io non sapevo nulla dell’inchiesta che era già in corso da un anno, avviata prima dalla procura di Milano e poi passata a quella di Monza. Da quel momento la mia vita è cambiata completamente”. Filippo Penati, ex presidente della provincia di Milano il 28 settembre è stato assolto in Appello dalle accuse di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. L’inchiesta era quella sul cosiddetto “sistema Sesto”. I giudici hanno confermato la sentenza di assoluzione di primo grado del dicembre 2015. Al telefono con il Foglio, Penati ricostruisce l’inizio della sua disavventura giudiziaria e politica. “Il mondo mi è crollato addosso, non riuscivo a capire quali fossero le accuse che mi stavano addebitando. Quasi contemporaneamente alla perquisizione di casa mia, la notizia era già sulle pagine online di alcuni quotidiani nazionali. Da lì è cominciato uno stillicidio di notizie, una ventina di giorni dopo ho appreso, dalla prima pagina del Corriere della Sera, che mi volevano arrestare. Io non ne sapevo nulla, e mi sono trovato definito dai pm monzesi un ‘delinquente abituale’. Questi furono i primi giorni di avvio di una vicenda che spero si sia conclusa”.

 

“Teoricamente – prosegue Penati – la procura può ricorrere in Cassazione. Mi auguro che non lo faccia, a questo punto diventerebbe accanimento. Il mio primo pensiero, in quei giorni, era rivolto ai miei figli e a mia mamma, che allora aveva 85 anni. Pensavo ai miei figli, che portano il mio cognome, e che sarebbero stati travolti. Se da una parte c’era il papà famoso e stimato, dall’altra avrebbero dovuto fronteggiare una esposizione mediatica per accuse così infamanti come quelle che mi erano state rivolte”. Penati, secondo lei il giustizialismo è una minaccia per la democrazia? “Guardi, io ho sempre evitato di usare la parola complotto. Non penso che ci sia un complotto o che ci siano forze oscure. Da questa vicenda però emergono due dati e una considerazione”.

 

Il primo dato, dice Penati, “è che c’è una debolezza della politica, una sua subalternità. A parole, l’avviso di garanzia è una comunicazione a garanzia di un inquisito, ma in realtà viene trattata come una condanna. Io mi sono immediatamente autosospeso dalle cariche nazionali e locali del Pd e mi sono immediatamente dimesso dall’unica carica istituzionale che avevo, quella di vicepresidente del Consiglio regionale lombardo, perché ho voluto scindere le mie responsabilità personali dalle istituzioni, difendendomi in modo adeguato, e ho voluto mettere al riparo il Pd. Ma al Pd di allora non bastò: la commissione di garanzia mi cancellò dall’anagrafe degli iscritti dopo 40 giorni dall’arrivo dell’avviso di garanzia. Qualche settimana dopo la perquisizione in casa mia e degli uffici, peraltro, chiesi di essere interrogato dai pm, ma la commissione di garanzia non aspettò neppure di ascoltare che cosa avevo da dire. In quell’occasione dissi ai pm la mia versione, in otto ore di interrogatorio, che avvenne i primi giorni di ottobre del 2011. Ma a metà settembre la commissione mi aveva già cancellato dall’anagrafe, unilateralmente, senza sentirmi. Ho provato una grandissima amarezza. E’ stato in quel momento che ho percepito l’ingiustizia, maggiore anche dell’indagine stessa che non meritavo, perché non c’era alcuna responsabilità nei fatti che mi venivano addebitati circa il cosiddetto ‘sistema Sesto’. La procura ha mischiato vicende della mia amministrazione con altre cose che riguardavano amministratori più recenti, tenendo insieme cose di cui non ero responsabile. Quando venni accusato, non ero più sindaco di Sesto da dieci anni”.

 

Quella cancellazione dall’anagrafe del Pd aggiunse dolore a dolore, dice Penati. “Come sempre, però, io mi sono voluto difendere nel processo e non ho mai fatto polemica. Vedo però che quella subalternità della politica non è stata completamente superata, anche se c’è stata un’evoluzione e ci sono dei segnali positivi. Va riconosciuto allo stesso segretario del Pd, Matteo Renzi, di aver citato la mia vicenda insieme a quelle di altri, come Vasco Errani, dopo l’assoluzione del 10 dicembre 2015. Renzi ha riconosciuto e lo ha detto più volte che il mio era uno di quei casi in cui le accuse si sono rivelate infondate”. C’è poi un secondo dato, aggiunge l’ex presidente della provincia di Milano. “Nel mio caso si è creato un cortocircuito fra il sistema dell’informazione e le tesi della procura, sapientemente fatte uscire con il contagocce sulle prime pagine dei giornali e di tutti i tg per settimane e per mesi, dove apparivano solo le tesi accusatorie. A detta dello stesso tribunale che ha emesso la sentenza di primo grado, quelle furono delle suggestioni, non essendo stato ritrovato il riscontro fattuale di una prova che sia una. Le indagini, ha detto il tribunale in primo grado, sono state lacunose e superficiali e sono stati utilizzati consulenti impreparati. E’ un tema, questo, che deve far riflettere il mondo dell’informazione: la tesi del pm è una parte, è una voce sola, ma le voci sono molte, eppure quella tesi viene presentata come se fosse una sorta di condanna, come se quelle accuse fossero un giudizio definitivo”.

 

Tutto il ragionamento fatto da Penati porta dunque alla considerazione accennata poc’anzi. “Negli ultimi mesi – spiega – oltre alla mia, ci sono state assoluzioni importanti di personalità politiche. Nel mio caso il tribunale ha voluto approfondire, c’è stato spazio per un vero contraddittorio, e oltre alla parte documentale sono stati sentiti un centinaio di testimoni in due anni di processo. Voglio dunque sottolineare un aspetto positivo: ci sono dei giudici in grado di fare giustizia e c’è la possibilità di avere un processo giusto. I giudici hanno avuto coraggio nonostante l’esposizione mediatica fortissima di emettere una sentenza che fosse sulla base dei fatti, senza farsi influenzare. E’ un dato positivo: non c’è solo a Berlino un giudice, ce ne sono parecchi anche in Italia”.

 

L’arma della questione morale

Penati segue ancora la politica, resta un uomo di sinistra, anche se la politica con cui è cresciuto non esiste più. “Ho una formazione politica vintage, ho cominciato portando i panini e il caffè agli scrutatori del Pci nei seggi quando ero giovanissimo. Mi sono formato con l’idea che la politica qualche volta deve essere come il salmone, capace di andare controcorrente all’opinione generale. Qualche volta la politica deve avere una forza non dico educativa ma deve essere in grado di far valere una propria idea, a prescindere da chi la politica la fa al bar o con i sondaggi. Le racconto due aneddoti. Da ragazzo, mio padre mi raccontava, e poi crescendo l’ho letto, di quando Togliatti impose al Pci di far approvare una legge per aprire il voto alle donne. La base del partito era contraria, perché considerava le donne influenzabili dai parroci, quindi quel voto secondo loro non sarebbe andato al Partito comunista. Se avesse ascoltato la base, Togliatti avrebbe commesso un errore. Un’altra volta, invece, impose ai giornalisti del’Unità di pubblicare le estrazioni del lotto, perché il Pci doveva essere un partito popolare e non elitario. Troppo spesso oggi invece vedo una politica che si improvvisa, che cambia spesso opinione e ondeggia. Succede anche nel Pd. Invece credo che ci sia bisogno di recuperare lo spirito riformista forte dei primi tempi”.

 

Con Pier Luigi Bersani, di cui è stato coordinatore nazionale della sua mozione e poi capo della segreteria politica, mantiene un “affetto personale. Ci sentiamo, anche se non ho condiviso la sua scelta, e gliel’ho detto. Però poi nelle situazioni bisogna esserci e quando una personalità come Bersani dice che nel partito non c’erano più le condizioni per un’agibilità politica bisogna riflettere. Bersani non è un barricadero, anche se il progetto politico di Articolo 1-Mdp non mi convince. Creare una forza coalizionale, una sorta di Ulivo in sedicesimi, non mi attrae. La vera scommessa è un Pd che abbia la spinta riformatrice dei primi tempi”.

 

Insomma, in questa politica che non va controcorrente come dovrebbe e che è subalterna, viene da chiedersi se in Italia la “questione morale” sia brandita come una clava per colpire gli avversari politici. Penati risponde così: “Guardi, la cosiddetta questione morale è fondamentale per recuperare un maggior livello di fiducia, che oggi è sotto zero, tra i cittadini e le forze politiche. Ma questo deve passare attraverso partiti in grado di darsi delle regole chiare che prescindano dalla magistratura. Gli uomini politici devono attenersi a queste regole, trasparenti dal punto di vista etico, che valgono anche se eventualmente non vengono sanzionati per via giudiziaria. Come primo atto bisognerebbe dare seguito al dettato costituzionale e approvare una legge che definisca che cosa sono i partiti nel nostro paese e quali regole hanno. Non è possibile che un’associazione sportiva o di volontari debba sottostare a regole precise, mentre associazioni che hanno il compito di governare il paese non siano regolamentate. C’è chi può fare un partito senza statuto (è il caso del M5s, ndr)”. Servirebbero, dice Penati, “finalità chiare, regole chiare, codici etici chiari. In questo modo la politica non sarebbe subalterna alle inchieste giudiziarie, anzi potrebbe prevenirle con interventi propri. Da troppi anni la risposta alla questione morale è diventato il governo degli onesti. Penso alla Lega, all’Italia dei valori o al M5s. Ma l’onestà è un pre-requisito, non il fine dell’azione politica. Essere onesti ma incapaci fa danni, così come fa danni essere disonesti ma capaci. Il tratto distintivo non può essere né l’uno né l’altro: servono politici onesti e capaci”.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.