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I sovranisti possono finire in mutande solo trasformando l'Europa in una bandiera

Claudio Cerasa

Meglio 12 stelle che 5 stelle. Una proposta: parlate meno di D’Alema e meno di doppia moneta e mettete i colori dell’Ue nel simbolo del vostro partito

Nel linguaggio della politica esistono alcune immagini che parlano senza aver bisogno di didascalie. L’immagine scelta ieri dai giornali che hanno dato conto del formidabile e super europeista inno alla gioia di Macron è una di queste: il volto sorridente del presidente francese conficcato orgogliosamente al centro di una stella della bandiera europea. Da mesi Emmanuel Macron ha scelto di trasformare le stelle dell’Europa in un’arma letale per esaltare le contraddizioni del partito unico del sovranismo e anche nel discorso pronunciato due giorni fa alla Sorbonne il presidente francese ha ribadito un concetto cruciale: il modo migliore per segnare una linea di confine netta e veritiera con i teorici del protezionismo è spiegare che l’unica forma di protezione credibile per i propri cittadini è rafforzare e non indebolire l’Europa. Protezione europea contro protezionismo nazionalista.

 

Il concetto è semplice. E’ un concetto che, se declinato con coerenza, permette a tutti i leader politici, e a tutti gli elettori, di saper distinguere perfettamente tra chi può essere considerato un avversario e chi deve essere considerato un nemico. Ed è un concetto che è stato al centro anche dell’ultima campagna elettorale tedesca. Riavvolgete il nastro e portatelo a venerdì scorso. A poche ore dal voto di domenica 24 settembre, il capo del centrodestra (Merkel) e il capo del centrosinistra (Schulz), pur essendo in competizione, scelgono quasi all’unisono di fare un appello finale, il cui senso può essere così sintetizzato: votate chi volete, ma non i nemici dell’Europa, non i nemici della democrazia. In una campagna elettorale matura, ogni partito dovrebbe essere in grado di spiegare la differenza che c’è tra un avversario che ha idee diverse dalle proprie, ma non incompatibili con la propria idea di democrazia, e un nemico che ha invece idee incompatibili con il proprio modo di osservare il mondo. In Germania la differenza tra nemici e avversari è risultata chiara a tutti – e lo stesso è successo in Francia quando socialisti e repubblicani non hanno avuto dubbi su chi dover scegliere tra un Macron e una Le Pen.

 

E in Italia? Qui la questione è più complicata. Da un lato esiste una classe dirigente non del tutto responsabile che dà credito al cialtronismo protezionista, che spaccia per “inciucio” la condivisione di alcuni princìpi e che fatica enormemente a considerare l’anti europeismo una minaccia per la nostra democrazia. Dall’altro lato esiste invece una classe politica in teoria responsabile ma ancora timida che spesso tende a sfidare i populismi giocando sul loro stesso terreno e che fatica a considerare l’europeismo l’arma giusta da utilizzare per condannare all’irrilevanza i campioni del protezionismo. Ci sarà tempo per i leader dei partiti europeisti di appropriarsi delle parole utilizzate due giorni fa alla Sorbonne da Macron (sabato il Foglio regalerà ai suoi lettori il testo completo del discorso del presidente francese).

 

Ma dato che la politica è fatta anche di simboli e di immagini, e dato che le immagini spesso riescono a parlare senza aver bisogno di didascalie, offriamo un’idea ai due partiti che più degli altri dovrebbero rappresentare l’alternativa naturale al sovranismo anti europeo. Ovverosia: fate quello che nessun partito nazionalista e protezionista avrebbe il coraggio di fare, parlate meno di D’Alema e meno di doppia moneta e mettete i colori dell’Europa nel simbolo del vostro partito. L’immagine sarebbe di per sé un programma elettorale e aiuterebbe a fare chiarezza su un punto in particolare: chi sceglie di nascondere le stelle dell’Europa per inseguire le stelle di un movimento e chi rinuncia a inseguire le stelle di un movimento per trasformare in oro le stelle che brillano sulla bandiera europea. Chi ci sta?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.