Luigi Di Maio sul palco di Italia 5 Stelle (foto LaPresse)

La sonnolenta incoronazione di Di Maio

Salvatore Merlo

Altro che De Gasperi e Cavour. Dal palco di Rimini Giggino promette: “Lavorerò per formare una squadra di governo di cui essere orgogliosi per la prima volta nella storia” 

Rimini. Non c’è pathos e non c’è solennità in questa stiracchiata incoronazione di Luigi Di Maio “candidato premier” a elezioni che, come tutti sanno, non avranno candidati premier, poiché si vota con il proporzionale. “Abbiamo liberato la rabbia”, dice Grillo dal palco, prima di dare risalto a una delle sue fantasmagoriche contorsioni, una prelibata oscurità linguistica, questa: “Tra il gridare e il futuro ci vuole un detonatore”, dice azzannando l’aria con viva impazienza, e intendendo forse sottolineare lo iato, la distanza che passa tra il bau bau e la razionalità che richiede l’arte del governo. Il “detonatore”, l’interprete di questa trasformazione, ammesso che sia mai possibile, sarebbe ovviamente Di Maio. E tuttavia è difficile fingere attesa per le primarie più scontate della storia delle primarie, perché quando il notaio Alessio Tacchini, lo stesso dell’“Isola dei famosi”, consegna a Grillo la busta chiusa, già tutti sanno che contiene un solo nome scritto grosso grosso, Luigi Di Maio: 30.936 voti su 37.442 votanti. Applausi, musica e coriandoli.

  

Alle primarie dell’Unione, nel 2005, Ivan Scalfarotto prese circa ventisettemila voti. E allora forse la cosa che colpisce di più, oggi, non è l’ottanta per cento di voti raccolti da Di Maio, ma il clamoroso venti per cento raccolto dai suoi sconosciuti sfidanti, compreso il fruttariano che ha raccontato in televisione di far uso di “citrullina”… Eppure lui, il vincitore e festeggiato, non si cruccia e nemmeno dissimula la sua debordante, sconfinata sicumera, al contrario regala al pubblico una di quelle frasi definitive che in altre epoche maggiormente dotate d’ironia sarebbero forse state sigillate da una pernacchia: “Da domani vi prometto che lavorerò per formare una squadra di governo di cui essere orgogliosi per la prima volta nella storia”. Altro che De Gasperi e Cavour, Giggino da Pomigliano d’Arco!

 

 

 

Ma il clima a Rimini è ovviamente iperbolico, e da quel palco si può dire praticamente qualsiasi cosa: la gente ascolta a gambe larghe e facce accese. E il neo eletto Di Maio, “cambierò l’Italia e non il Movimento”, per prima cosa ringrazia “Grillo e Casaleggio che hanno reso tutto questo possibile”. Così la memoria corre immediatamente allo stile, all’antropologia e all’estetica contrapposte che già separarono Virginia Raggi e Chiara Appendino, al momento della loro elezione, la romana che rivolgeva il suo grazie ai padroni della ditta, proprio come Di Maio, e la torinese che invece trovava con intelligenza comunicativa gli accenti istituzionali ed elevati che l’occasione richiedeva, “spero di essere all’altezza della storia di questa città”. E insomma Rimini avrebbe dovuto suonare una sinfonia del trionfo, l’elegia di un leader appena sorto, ma l’effetto è stato, all’incirca, come ascoltare l’Eroica nella versione che ne faceva Ugo Tognazzi in quel famoso film che s’intitolava, appunto, “il petomane”. Ed ecco infatti Grillo, che in una specie di flusso di coscienza nel quale intende spiegare tutto, ovvero il nostro presente, il nostro passato e il nostro futuro, dice: “Non possiamo fare le barriere, avremo una società meticcia. Anche io ho un pezzo di Africa in me. Dove? Spero tra le gambe”. 

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.