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Il grillismo e l'istinto suicida di combattere la ricchezza invece che la povertà

Claudio Cerasa

In Germania, il benessere è stato uno dei temi centrali della campagna elettorale e Merkel è arrivata al risultato di oggi scommettendo su una parola che in Italia è un tabù: il successo. In Italia, il grillismo ha contribuito a rendere sexy il pauperismo e a combattere l’eccellenza. Il risultato? Di Maio

Ma davvero possiamo continuare a credere che la ricchezza sia un maledetto tabù? Tra le molte ed evidenti differenze tra la campagna elettorale tedesca, appena conclusasi, e la campagna elettorale italiana, che praticamente comincia da oggi, ce n’è una molto importante che riguarda un tema complicato da maneggiare: il rapporto della politica con i soldi. Nel caso specifico, il rapporto in questione non riguarda le categorie del codice penale ma riguarda semmai categorie non meno cruciali come quelle legate a un preciso codice culturale.

 

In Germania, e in questo Angela Merkel è stata fenomenale, il benessere è stato uno dei temi centrali della campagna elettorale della Cdu (“Successo” è stato lo slogan elettorale della Merkel) e la differenza di approccio della cancelliera uscente, e anche dei suoi rivali, diverge dall’approccio italiano per una ragione su tutte: in un paese dove vige il buonsenso si combatte la povertà, non la ricchezza. Negli ultimi giorni, e purtroppo non solo negli ultimi giorni, il contesto politico all’interno del quale è maturato con più forza un senso nauseante di ribaltamento della realtà è quello in cui si trovano immersi i compagni del Movimento 5 stelle. Il rapporto tra i soldi e Grillo, nel corso della spassosa tre giorni di Rimini – dove, con un risultato assolutamente a sorpresa, Luigi Di Maio è stato proclamato candidato premier del movimento – è stato messo in rilievo per ragioni del tutto secondarie, ovvero per il numero totale di contributi (scarsi) raccolti dalla piattaforma Rousseau prima della convention di Rimini (340 mila euro, contro i 469 mila del 2016, contro i 497 mila del 2015).

 

 

In politica, l’incapacità di attrarre finanziamenti è spesso il riflesso di un problema più grande, ovvero l’incapacità generale di attirare consensi ed eccellenze. Ma il vero tema da prendere in considerazione, e da mettere sotto esame, sul rapporto tra i 5 stelle e i soldi è un tema più grande che riguarda uno dei tratti più inquietanti e pericolosi del grillismo: l’imposizione del modello pauperista.

 

Al contrario di quello che si potrebbe credere, trasformare il tema dei soldi in un tema tabù, legittimare i lemmi della decrescita felice e promuovere una visione fintamente francescana della vita – ovviamente, da buon clown, a bordo di uno yacht in Costa Smeralda – non significa affatto mettere in atto una campagna di invito alla sobrietà (a meno che non si voglia pensare che sia credibile un tizio che invita a essere sobri a colpi di vaffanculo) ma significa essere complici di un’operazione suicida: la lotta senza quartiere contro il merito, la promozione indefessa della mediocrità. Sia in campo economico sia in campo politico, l’idea che la giusta dimensione della vita sia quella della povertà francescana – e prima o poi, comunque, un qualche francescano dovrebbe citare per danni un politico che si considera esplicitamente l’erede di san Francesco – è un’idea che si porta con sé conseguenze devastanti.

 

Da un lato, il pauperismo alimenta uno spirito egualitario che sconfina spesso nella disapprovazione sociale di chiunque abbia successo nella società. Dall’altro lato, contribuisce a legittimare una serie di processi pazzotici che combinati insieme contribuiscono ad allontanare dalla politica qualunque forma di eccellenza – e non ci vuole molto a capire che se la politica deve essere a costo zero e se i vitalizi sono un reato e se gli stipendi sono rubati e se la casta è il simbolo di chi si arricchisce ingiustamente, l’effetto finale non può che essere quello di disincentivare chiunque abbia accumulato molto reddito ad avvicinarsi direttamente al mondo della politica. Come ha notato il premio Nobel Edmund Phelps in una indagine sulla progressiva riduzione dei tassi di crescita della produttività in tutto l’occidente, ricordata qualche settimana fa sul nostro giornale da Carlo Stagnaro, le politiche pauperiste scacciano la ricchezza economica, ostacolano la promozione del merito e promuovono una società corporativa all’interno della quale si impongono man mano valori pre-moderni che tornano alla ribalta per combattere ogni forma reale di modernità. Il corporativismo, scrive Phelps, “disapprova gli individui con l’ambizione di arricchirsi, chiamandoli ‘approfittatori’ e detesta i ‘nuovi capitali’ che spiazzano la ricchezza tradizionale. Disapprova la competizione, preferendovi invece l’azione concertata della società attraverso il governo. Più importante, il corporativismo è un attacco all’individualismo, in quanto chiede allo stato di portare armonia e nazionalismo in luogo dell’autonomia dell’individuo nel prendere iniziative e innovare”.

 

Da questo punto di vista, il pauperismo non ha dunque solo l’effetto di impoverire le aziende, di impoverire la politica, di mettere in fuga le eccellenze (la vera ragione per cui una vittoria di Grillo in Sicilia sarebbe devastante riguarda più un aspetto economico che un aspetto politico, ovverosia il rischio non di un arrivo di Grillo a Palazzo Chigi ma il rischio che l’idea che Grillo possa arrivare a Palazzo Chigi scateni il panico tra gli investitori stranieri). Ma ha anche un altro effetto micidiale e spesso sottaciuto che è quello di rendere prioritaria in più segmenti della società la lotta contro la ricchezza più che contro la povertà.

 

Tra pochi giorni, Beppe Grillo ricorderà all’Italia che il Movimento 5 stelle è stato volutamente fondato da lui e da Gianroberto Casaleggio il quattro ottobre (del 2009) per una ragione particolare, così spiegata sul blog del clown genovese: “Non è certo per fini elettorali o per prendere il ‘voto dei cattolici’ che il MoVimento è stato fondato, nel 2009, proprio il 4 ottobre, giorno in cui si festeggia il patrono d’Italia. Era una dichiarazione d’intenti. Un volersi elevare a una dimensione che non è quella ristretta e miope della politica, ma quella senza confini dello spirito e dell’uomo. Abbiamo sempre volato alto, anche quando nei sondaggi eravamo relegati alla voce ‘altri’. Gianroberto ed io prendemmo questa decisione perché san Francesco è un santo ambientalista, animalista e che ha creato il suo ordine, dando impulso al rinnovamento della Chiesa, senza soldi”. Quando sentirete Grillo paragonarsi a san Francesco non vi chiediamo di comporre il 113 ma quantomeno di ricordare per un attimo la lezione di Phelps: se nel mondo della politica trasformi la ricchezza in un tabù non stai promuovendo un rinnovamento culturale ma stai combattendo contro l’idea che gli individui debbano essere incoraggiati a prendere iniziative e a innovare, e stai promuovendo sostanzialmente un mondo fatto a immagine e somiglianza di Luigi Di Maio. Anche no, grazie.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.