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Perché un delfino spiaggiato indigna più di chi vuole cancellare la democrazia

Claudio Cerasa

Nell’indifferenza generale, il Movimento 5 stelle, ha confermato di essere “a favore dell’introduzione di un vincolo di mandato”. Spacciando l’anfetamina della democrazia diretta, si punta a trasformare i parlamentari in marionette della Casaleggio Associati 

Sarebbe bello dire che la colpa è solo dell’estate, della distrazione generata dalle vacanze e della voglia di occuparsi sotto un ombrellone più di leggerezza che di pesantezza. Sarebbe bello dire che in un altro momento dell’anno la reazione sarebbe stata diversa, più pronta, più veloce, più indignata. Ma purtroppo le cose non stanno esattamente così. E lo spaesamento prodotto dal caldo agostano spiega solo in parte perché, durante l’estate, la notizia di “un cucciolo di delfino che muore mentre i bagnanti si fanno selfie su una spiaggia spagnola” è stata rilanciata un numero di volte infinitamente superiore alla notizia di un partito politico che, tra mille simpatici selfie, promette di far fare alla democrazia italiana la stessa fine del delfino spiaggiato.

 

In un paese normale, dotato cioè di una classe dirigente capace di interpretare il suo ruolo in modo diverso dall’essere una semplice e ridicola fustigatrice della “casta”, nessuno avrebbe fischiettato e fatto finta di nulla di fronte a una proposta scritta nero su bianco da uno dei tre partiti che si candidano a guidare il paese a partire dal prossimo anno. Lo scorso 18 agosto, nell’indifferenza generale, il Movimento 5 stelle, presentando il suo incostituzionale programma di riforme costituzionali, ha confermato di essere “a favore dell’introduzione di un vincolo di mandato che impedisca il trasformismo e la nascita in Parlamento di partiti mai votati da nessuno”.

 

Da un certo punto di vista, l’introduzione del vincolo di mandato è la prosecuzione naturale delle battaglie anti casta. E stupisce dunque fino a un certo punto che i giornali che in questi anni si sono spesi con generosità per delegittimare la classe politica non siano spaventati dall’idea di stracciare uno dei capisaldi della nostra democrazia, ovvero il principio, garantito dall’articolo 67 della Costituzione, che ogni membro del Parlamento rappresenti la nazione esercitando le sue funzioni senza vincolo di mandato.

 

Il Movimento 5 stelle insomma, mentre tutti sono molto distratti dai simpaticissimi selfie di Di Maio e Di Battista in Sicilia, ci sta dicendo ogni giorno sempre più ad alta voce che il disegno della democrazia grillina prevede esplicitamente il superamento della democrazia rappresentativa e la contestuale introduzione di una forma raffinata di maoismo digitale attraverso due passaggi chiari: mettere la democrazia rappresentativa alle dipendenze della democrazia diretta e costringere i parlamentari a rappresentare solo gli interessi dei propri partiti e non più quelli degli elettori (con lo stesso modello di indubbio successo sperimentato in città come Roma, dove Virginia Raggi, accettando di firmare una clausola vessatoria da 150 mila euro con Grillo e Casaleggio, ha scelto di diventare il burattino di un blog e di un’azienda privata).

 

Occuparsi di questi temi porta certamente meno clic di una lunga disquisizione sulle responsabilità degli esseri umani di fronte alle immagini di un cetaceo spiaggiato, ma lo spettacolo di un movimento che spaccia l’anfetamina della democrazia diretta, per trasformare i parlamentari in marionette della Casaleggio Associati, avrebbe dovuto suggerire a qualche commentatore di ricordare a un partito di clown che la Costituzione italiana prevede un principio che non andrebbe dimenticato neppure sotto un ombrellone: il popolo esercita la sua sovranità trasferendo il potere non a un server gestito da un’azienda privata che sogna di trasformare la nostra democrazia in uno spettacolo di marionette, ma semplicemente a chi viene eletto alle elezioni. Sabato prossimo il Foglio regalerà lo storico discorso che il grande Edmund Burke pronunciò il 3 novembre del 1774 a Bristol, all’indomani della sua elezione in Parlamento, quando per difendere la democrazia rappresentativa usò parole che vale la pena rileggere: “Il Parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi, interessi che ciascuno deve tutelare come agente o avvocato; il Parlamento è assemblea deliberante di una nazione, con un solo interesse, quello dell’intero, dove non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi locali, ma il bene generale”. Siamo certi che, una volta finita l’estate e la morìa di delfini, anche la nostra classe dirigente sarà in grado di rendersi conto che continuare a giocare con le battaglie anti casta, oggi, rischia di essere un gioco pericoloso non per questo o quel partito ma più banalmente per la nostra democrazia.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.