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La lezione di De Gasperi contro i populisti di oggi: le coalizioni

Lucio D'Ubaldo

Prima del politico Dc non esistevano, con lui divennero un’alleanza coerente e stabile di forze democratiche, in grado con la sua autorevolezza di guidare il paese fuori dalla lacerante dialettica tra rivoluzione e reazione

Del tempo di De Gasperi non conserviamo che sparse reliquie, del suo ruolo conosciamo appena l’essenziale, quel che ne fa agli occhi degli storici un campione della libertà e della democrazia, dunque un padre della Patria. Un po’ come Cavour, l’architetto politico del nostro Risorgimento. Ed entrambi, il laico Cavour e il cattolico De Gasperi, non hanno avuto e non hanno continuatori: come potrebbero averne, d’altronde, se le condizioni politiche in cui hanno operato sono tanto distanti e diverse da quelle odierne?

 

E’ pur vero che il ricordo del leader trentino, nell’anniversario della sua scomparsa, ormai 63 anni fa, induce in ogni caso a riflettere sulla lezione ancora viva del suo concetto di democrazia, avente l’epicentro nel principio di coalizione. Il compianto Roberto Ruffilli, lo studioso delle istituzioni vittima delle Brigate Rosse, aveva messo in evidenza la novità dello “schema degasperiano”, allorché nella vita democratica italiana la coalizione diventa la pietra miliare della dinamica politica. Essa stessa, la coalizione, si fa istituzione; da essa non si prescinde, pena la caduta di legittimità della leadership; con essa si sostanzia e prende forma la proposta di governo.

Vale la pena individuare bene l’origine di tale regola politica, fino ad allora inesistente. Anzitutto l’alleanza doveva avere una sua sacralità perché il liberalismo in versione giolittiana, cedendo alla disorganicità del gioco parlamentare e confidando nell’abilità del capo dell’Esecutivo, aveva finito per cedere (anche per questo) alla spinta accentratrice e autoritaria di Mussolini. Caduto il fascismo, De Gasperi pensava che la competizione con l’antagonista più forte e insidioso, costituito dal Partito comunista, richiedesse la formazione non già di un generico e indistinto blocco moderato, recante semplicemente l’imprimatur della sua connotazione anticomunista, ma di un’alleanza coerente e stabile di forze democratiche, in grado con la sua autorevolezza di guidare il paese fuori dalla lacerante dialettica tra rivoluzione e reazione.

 

Questa idea di coalizione non impediva di pensare la Democrazia cristiana, che De Gasperi ancorava fortemente alla tradizione del cattolicesimo popolare e democratico, come fulcro del sistema politico. Come è noto, le elezioni del 18 aprile 1948 ebbero un impatto straordinario sui destini dell’Italia, con De Gasperi trionfatore nell’assegnare al suo partito il ruolo di asse portante del nuovo ordinamento repubblicano e della politica di ricostruzione nazionale. Il passaggio dall’Italia contadina all’Italia industriale fu rapido, massiccio, finanche travolgente.

 

Non fu un caso. Un ministero di soli democristiani, possibile in base ai numeri parlamentari e gradito alla sinistra interna di rito dossettiano, avrebbe reso tutto molto più complicato. Non passò, a dispetto dei sostenitori ante litteram del partito solo al comando, la suggestione del governo monocolore. De Gasperi ebbe il merito di tenere insieme, con una impareggiabile capacità di sintesi, le forze disponibili a comporre una maggioranza che nelle circostanze date assumeva un carattere riformatore e progressista, essendo chiusa ad ogni contaminazione di tipo monarchico e neofascista. Il motore di questa nuova alleanza era la Dc come “partito di centro che guarda a sinistra”, secondo la celebre definizione degasperians. Un partito esso stesso plurale, per una coalizione naturalmente plurale, destinata ad abbattere gli “storici steccati” tra guelfi e ghibellini. Il problema consisteva nella concreta armonizzazione di libertà e socialità, non molto diversamente da quanto si prospetta, criticamente, ai nostri giorni. Per questo il quadripartito degasperiano (democristiani, socialdemocratici, repubblicani e liberali) possedeva un orizzonte strategico e doveva rappresentare, in fondo, “lo stadio preparatorio di una nuova formazione politica” (Del Noce).

 

Orbene, come possiamo in questa luce cogliere oggi la vitalità o l’attualità dell’esperienza di De Gasperi? Non si tratta di rifare, giacché sarebbe vanamente dispendioso e quindi inconcludente, l’operazione che lo statista democristiano compì negli anni della Guerra fredda; si tratta piuttosto di affrontare il medesimo problema, quello della stretta cooperazione dei diversi riformismi, che fu alla base della costruzione della sua alleanza democratica. E oggi, dopo la caduta del comunismo e la fine della contrapposizione ideologica tra individualismo e collettivismo, una nuova alleanza democratica emerge come vera necessità di un’azione di contrasto verso gli “opposti estremismi” rappresentati da populisti e sovranisti.

 

Sul Partito democratico, imprigionato nel pragmatismo di una sinistra opacizzata, aliena a riprendere il filo della concreta narrazione del riformismo italiano, ivi incluso il modello degasperiano, ricade eminentemente il peso di una seria e approfondita revisione ideale. Viene da dire, onestamente, che l’idea di un soggetto riformista emancipato dal passato, così da essere certamente emancipato dalle ideologie del Novecento, non ha fornito esiti positivi. Pare banale, infatti, derubricare a questione di liti e antipatie personali l’instabilità del centrosinistra, quando semmai è il substrato profondo, ovvero l’humus filosofico del riformismo democratico, a mostrare un deficit di consistenza culturale nella sua attuale conformazione, tanto da scontare al proprio interno un tasso elevato di conflittualità.

 

Invece d’inseguire un’astratta novità, fuori da ogni tradizione di pensiero, come immaginato dal gruppo ristretto dei fondatori del Pd, estromessi perlopiù dall’odierna linea di comando del Nazareno, servirebbe quanto mai attingere all’insegnamento di De Gasperi. Il messaggio, con Renzi o contro Renzi, avanza lungo questa direzione: né integralismo, né trasformismo, ma conquista di una dimensione politica più limpida e feconda, per il bene del Paese.

 

Una nuova sintesi riformista può nascere dal dialogo e la collaborazione delle due grandi culture riformatrici, entrambe a vocazione maggioritaria e capaci di sopravvivere, con le loro peculiarità, al vuoto ideale e politico determinato dalla scomparsa del mito rivoluzionario di stampo marx-leninista: quella liberal-socialista e quella democratico-popolare d’ispirazione cristiana. Non averne contezza, causa il prêt à porter della politica a misura di leader, fa male alla democrazia nel suo complesso. Insomma, non la pretesa d’inventare ogni giorno una posizione di puro intuito, senza debiti con la storia, perciò disincarnata e nondimeno inquieta nel suo vitalismo di potere; ma l’impegno a strutturare un nuovo progetto per l’Italia; un progetto forte come la Ricostruzione del secondo dopoguerra, che tragga dallo schema degasperiano l’elemento tuttora valido ai fini dell’organizzazione di una maggioranza di governo dotata di programmi e finalità, e quindi, per analogia, di una riconoscibile forma di sacralità politico-istituzionale.

 

Questa pertanto è la scommessa. Alla logica dei blocchi contrapposti, inaugurata frettolosamente nel 1994 come estenuazione e alterazione del “pluralismo polarizzato” (Sartori) della cosiddetta Prima Repubblica, è auspicabile che subentri un’azione convergente e unificante – con il taglio delle ali – a difesa della democrazia parlamentare, del profilo europeista dell’Italia, della sua prospettiva di rinascita (sia economica che civile) dopo la crisi scatenata dieci anni fa dalla bolla finanziaria internazionale. E se le vecchie aggregazioni non hanno funzionato, inutile riproporle a forza. Nel 2018, alla scadenza elettorale, gli italiani avrebbero tutto da guadagnare da una battaglia in stile “18 aprile”, con schieramenti tra loro alternativi rispetto alle grandi questioni del paese, ma sostanzialmente uniti nella definizione di una linea di confine verso le componenti più radicali, portatrici di una pericolosa miscela di antiparlamentarismo, antieuropeismo e antiglobalizzazione.

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