Marco Minniti e Paolo Gentiloni (foto LaPresse)

La Libia nasconde una partita parallela, dove in ballo c'è Palazzo Chigi

Redazione

Rottamazione di lotta, mediazione di governo. Perché il dossier migranti è un test anche per il dopo elezioni

Roma. Chi sarà il prossimo presidente del Consiglio nel primo governo che, dalla caduta della Prima Repubblica, dalle dimissioni nel 1993 del primo governo Amato, si formerà ancora una volta in Parlamento, come accadeva in un tempo ormai remoto, seguendo gli antichi riti del proporzionale, lungo i tortuosi sentieri degli accordi tra i partiti? A questa domanda, che è un po’ il gioco dell’estate nei palazzi della politica – e che tuttavia già da mesi determina strategie, riposizionamenti, persino invidie e qualche ripicca – c’è una sola risposta certa che nel Pd danno praticamente tutti, gli uomini d’ogni corrente, cordata e fazione: non sarà Matteo Renzi. Anche qualora il Pd dovesse infatti risultare il partito più votato d’Italia, il presidente del Consiglio dovrà essere una figura di mediazione, capo di un governo di coalizione, certamente larga, insomma un uomo capace per biografia, indole, titoli (e perché no, prestigio) di condensare attorno a sé voti a sinistra, al centro, e anche a destra.

 

Dunque chi? Nel Pd, l’esperienza tutt’altro che caduca del governo Gentiloni ha messo in luce una classe dirigente solo in parte sovrapponibile, e in gran parte alternativa, al gruppo originario che Renzi portò con sé al governo. E all’interno di questo gruppo ministeriale si segnalano – e sono segnalati dall’interno del palazzo – tre nomi: Paolo Gentiloni, ovviamente. Ma anche Marco Minniti, il ministro dell’Interno. E Graziano Delrio, ministro dei Trasporti. Ciascuno di loro ha in mano un filo del gomitolo più intricato e determinante, anche ai fini della proiezione personale, della politica italiana: la Libia. 

 

E allora Minniti – cui ieri, dopo gli elogi del Nyt, è arrivato l’apprezzamento ufficiale di Sergio Mattarella (cioè di colui che nomina il capo del governo) – riceve nel suo studio del Viminale capitribù e ambasciatori semi-ufficiali della Libia tormentata, vola in Tunisia e difende la posizione di Serraj, dunque sforna piani e offre una visione complessa delle politiche migratorie, esercita il suo ruolo su scala mediterranea ed europea, vorrebbe chiudere i porti a quelle ong che non hanno firmato il suo codice di condotta. Mentre Delrio viaggia pure lui in Libia, incontra il ministro libico dei Trasporti, fa sapere d’aver cura degli interessi economici italiani nel paese nordafricano, dunque la riapertura degli spazi aerei e la ripresa dei lavori infrastrutturali, l’Eni e la grande autostrada che dovrebbe collegare l’est e l’ovest del paese, e poi interpreta un atteggiamento meno muscolare, più cattolico e forse più di sinistra, popolare in ampi strati elettorali, di quello di Minniti, nei confronti delle ong e dell’immigrazione. E infine Gentiloni, il presidente del Consiglio che trattiene le deleghe ai servizi segreti, dunque è concentrato personalmente sul dossier, media tra le diverse posizioni dei suoi ministri e continua a esercitare un ruolo diplomatico apicale, di collegamento con le cancellerie, con il Consiglio d’Europa e con i ministeri degli Esteri, annuncia l’invio in Libia delle navi per i pattugliamenti, mette la faccia sulla questione dell’immigrazione, lui che insomma sembra ancora il titolare della Farnesina.
E ciascuno di loro può misurare settimanalmente, e a quanto pare con soddisfazione, il suo personale gradimento presso la platea del mercato elettorale (secondo Ipsos, Minniti è in testa, Delrio è terzo, Gentiloni piace addirittura a un italiano su tre).

 

E ciascuno di questi uomini sa inoltre quanto ci sia di propellente elettorale nella questione immigrazione, quanto questo groviglio libico alimenti in uguale misura paura e solidarietà, fra gli italiani, e quanto infine il tema acceleri il metabolismo dei populisti della Lega e delle cinque stelle, che ne fanno materia di propaganda, carburante per una campagna elettorale che tuttavia una buona azione di governo potrebbe anche esaurire. Chi vince in Libia vince a Roma. E allora chi sarà il prossimo presidente del Consiglio, il capo del primo governo che si formerà in Parlamento dopo ventiquattro anni di maggioritario e di premier indicati sulla scheda? Gentiloni è il favorito in tutte le scommesse di questo gioco estivo di Palazzo, ed è anche quello di cui Renzi si fida di più. Ma Minniti piace di più alla destra, mentre Delrio è la versione cattolica che accende gli istinti solidaristi della sinistra. Chi sarà il prossimo presidente del Consiglio, ammesso che il Pd vinca le elezioni? 

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