Pisapia, riluttante e spaventato (dai suoi)

Salvatore Merlo

Seduta di psicanalisi in via Cavour: “Ma di D’Alema che ce ne facciamo?”

Roma. Dicono che per un momento Giuliano Pisapia avesse coltivato la tentazione ambiziosa di poter governare chi pensava di governarlo, insomma credeva davvero di poter tenere al lazo del suo ancora intatto prestigio personale, D’Alema e Bersani, Speranza e Scotto, Fratoianni e Sinistra italiana, tutto un mondo che si riproponeva (e si ripropone) di rifugiarsi dietro la sua gentilhommerie, di farci il nido dentro, di allogarcisi, ma al proprio ritmo e alle proprie regole, come se Pisapia fosse solo un paravento, un maglione nuovo, un tocco di fard o di belletto. Usare chi vuole usarti può anche essere una tentazione. Ma ieri forse è cambiato qualcosa. E allora quest’uomo mite e garbato che non parla mai male di nessuno, nemmeno dei nemici, adesso se ne sta seppellito sotto la scorza di una modestia voluta, cercata affannosamente, quasi con disperazione, “abbiamo letto di buon mattino le polemiche di Speranza e degli altri”, racconta Bruno Tabacci, che ha stabilito con Pisapia un’intesa che supera quella politica, “e alla fine ci siamo detti che non era il caso d’incontrarsi con Speranza”.

 

Gli abbracci colpevoli a Maria Elena Boschi, il rimprovero di non essere abbastanza aspro nei confronti di Renzi fatto però da chi era in maggioranza con Berlusconi e ha votato il Jobs Act… A un certo punto, guardandosi intorno, osservando questi compagni di viaggio, è come se Pisapia si fosse trovato all’improvviso in un paesaggio misterioso, governato da contorte ossessioni, da piccole furbizie, da opportunismi che gli hanno spalancato di fronte agli occhi prospettive vertiginose. Come sarebbe ritrovarseli poi tutti in Parlamento? E allora “Giuliano ha fatto bene ad annullare l’incontro”, dice Marco Furfaro, uno dei suoi collaboratori più stretti, “non vogliamo ingannare gli elettori. Non vogliamo comporre una lista elettorale in cui entra tutto e il contrario di tutto, come fu la lista Tsipras. Ve la ricordate? Si è divisa un minuto dopo le elezioni. Questo a noi non interessa. Coltiviamo l’ambizione di rispondere alle esigenze del paese, all’elettorato deluso dal Pd, non agli interessi di una nomenklatura parlamentare”. E la percussione delle parole è sintomatica. Ma anche la confusione.

 

E infatti ieri pomeriggio, riuniti a Roma al centro congressi di via Cavour, con i luogotenenti milanesi di Pisapia, con il giovane Alessandro Capelli, Marco Furfaro, e il vicepresidente della regione Lazio Massimiliano Smeriglio, si sono ritrovati tutti i parlamentari di Sel che sostengono Pisapia, tranne Arturo Scotto, che ormai fa coppia fissa con Speranza, suo vecchio amico dai tempi delle giovanili diessine. E allora ecco le domande, i dubbi, in un’atmosfera carica di diffidenza, e d’incertezza: sicuri che li vogliamo D’Alema e Speranza, Stumpo e Bersani? E che ce ne facciamo? Meglio loro che Renzi! E Rifondazione? E Fratoianni? Chi siamo? Dove andiamo? Tutte le contorsioni di una sinistra che non sa nemmeno bene se essere Podemos o Italia bene comune, antisistema o costola del Pd, europeista o euroscettica, centrosinistra o sinistra-sinistra, Ulivo o Rifondazione comunista, dentro o fuori dall’euro, globalista o localista… “Siamo alternativi al Pd e antagonisti al centrodestra”, si sono detti alla fine della riunione, con chissà quale convinzione. “Antagonisti”, dunque. Una parola che non si sentiva dai tempi del G8 di Genova, quando l’Italia conobbe Vittorio Agnoletto e Luca Casarini. A furia di togliere, di aggiungere, di precisare, di litigare e di vagheggiare, questo mondo sembra un po’ uno di quei volantini pubblicitari del supermercato, di quelli con offerte tre per due – e metti l’euro e togli l’euro, e togli la rosa del socialismo e metti la parola sinistra, aggiungi D’Alema e togli D’Alema – che in politica, di solito, è la strada sicura per una pernacchia elettorale. “Ma Giuliano che dice?”. Per adesso parla poco, Pisapia. Ed è come se tutti questi frizzi e lazzi, e chiacchiere e protagonismi, velleità e furbizie, stupidaggini e malizie, non smettessero di ricordargli quanto poco gli somigli la compagnia che ha radunato attorno sé.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.