LaPresse/Fabio Cimaglia

L'asse Gentiloni-Cav che argina le dimissioni di Costa

David Allegranti

Se Ap non sarà in grado di garantire i voti, potrebbe venire in soccorso l’unico a non voler danneggiare davvero il governo, cioè Berlusconi

Roma. Il governo Gentiloni assomiglia sempre più alla scena finale con gli specchi de La signora di Shanghai, di Orson Welles: per sopravvivere bisogna distinguere i riflessi dalle persone in carne e ossa e pistola carica. L’addio di Enrico Costa, che oggi ha lasciato l’incarico di ministro degli Affari regionali (l’interim se lo è preso, e se lo terrà, il presidente del Consiglio), è stato gestito dall’esecutivo senza spargimento di sangue. Il deputato di Ap aveva espresso la propria contrarietà ad alcune leggi in discussione in Parlamento, tra cui quella sullo ius soli, che peraltro è stata rinviata a data da destinarsi. Le dimissioni di Costa, arrivate dopo un incontro fra Gentiloni e Alfano martedì, hanno aperto il vaso di Pandora dei sospetti: non è che adesso Alfano ritira la sua delegazione, facendo venire meno il sostegno al governo? D’altronde, c’è già il precedente del 2012. L’inizio della fine del governo Monti avvenne con l’addio del Pdl e fu proprio Alfano, allora segretario del Pdl, a dichiarare conclusa l’esperienza politica dell’esecutivo montiano. C’è da dire però che Alfano fuori da questo governo rischierebbe di contare molto poco. A Palazzo Chigi tutto viene valutato con la massima attenzione, d’altronde il gioco degli specchi non permette distrazioni. Gentiloni e i suoi uomini conoscono le difficoltà di Alfano al Senato, nonostante le mille rassicurazioni (alle quali però non viene dato molto peso) fornite dal leader di Ap sulla tenuta dei suoi. Nel governo sanno che Alfano, in realtà, non controlla i suoi parlamentari, che l’equilibrio va di volta in volta aggiustato e che l’acme di questo modello da Prima Repubblica arriverà con la legge di Bilancio. Lì il punto non è se Ap vorrà garantire i voti ma se potrà farlo. E qui potrebbe venire in soccorso, come già sta facendo in questi giorni, l’unico a non voler danneggiare davvero Gentiloni, cioè Berlusconi. Il Cav. sta all’opposizione ma non vuol far cadere il governo. 

  

Berlusconi vuole fermare la transumanza verso Forza Italia. Lo ha ribadito oggi Niccolò Ghedini nella riunione con i coordinatori regionali del centro-sud, dove principalmente si è discusso dei soldi che parlamentari e consiglieri regionali non versano al partito. Il senatore ha spiegato che la linea del capo di Forza Italia è quella di “non far rientrare nessuno” per puntare invece “sul rafforzamento del partito sul territorio”. Il problema non sono tanto Costa e gli altri parlamentari che rientrerebbero volentieri nel vecchio partito, ma tutti i fuoriusciti in giro per l’Italia – consiglieri comunali, regionali, dirigenti locali – che adesso vorrebbero tornare nella casa madre, a danno magari di chi è rimasto fedele alla ditta. Per loro lo spazio nel centrodestra comunque c’è, visto che sta per nascere un nuovo partito centrista al quale stanno lavorando Costa e altri parlamentari di Ap in procinto di uscire.

  

Berlusconi, insomma, non vuole sfasciare tutto. E in autunno potrebbe anche accadere una mossa a sorpresa: il voto non ostile di Forza Italia alla legge di Bilancio. Bisogna registrare infatti che il clima è positivo, il dialogo con il governo è costante. L’esecutivo è in contatto con i due capigruppo, Paolo Romani e Renato Brunetta, mentre Antonio Funiciello, capo dello staff di Paolo Gentiloni, tiene i rapporti direttamente con Gianni Letta. “Insomma, qualcuno di responsabile c’è: Berlusconi”, motteggiano nel Pd. Almeno lui. D’altronde, non sono solo Alfano e i suoi in cerca di un’identità per il 2018 (e le identità, specie in clima di proporzionalismo spinto, possono essere parecchio pericolose) a creare problemi. E che Alfano rappresenti un caso lo dimostrano anche le parole di Piero Fassino, ex sindaco di Torino, per il quale le dimissioni di Costa “sono una scelta che richiede un chiarimento politico da parte della coalizione di centrosinistra, perché Alfano e il suo partito sono stati e sono tuttora parte organica dell’alleanza”. Ma lo stesso Pd offre motivi per aumentare lo stato di tensione. Nel partito di Matteo Renzi non si è ancora conclusa l’eterna scissione, o meglio fuoriuscita, cominciata mesi fa con Bersani, D’Alema e soci. Anche Cesare Damiano, già sostenitore di Andrea Orlando al congresso, sarebbe sul punto di lasciare il Pd. Non è esattamente un dettaglio: Damiano è presidente della commissione Lavoro alla Camera e l’approdo in Mdp, un partito che è formalmente nella maggioranza ma la metà delle volte vota contro il governo, potrebbe creare ulteriori grattacapi all’esecutivo. In mezzo agli specchi e ai riflessi, una certezza in carne e ossa, comunque, c’è: il solido asse Gentiloni-Berlusconi.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.