Piero Fassino (foto LaPresse)

Fassino ci spiega perché il Pd deve cambiare le sue priorità

David Allegranti

L'ex segretario dei Ds sulle tensioni interne: “Non mi pare che Veltroni e Franceschini abbiano posto problemi sulla leadership, ma sul profilo dell'azione del partito”

Roma. Piero Fassino, ex segretario dei Ds ed ex sindaco di Torino, ma sopratutto tra i fondatori del Pd, lo dice chiaramente: “La leadership di Matteo Renzi – spiega al Foglio – non è in discussione”. C’è però un’esigenza, chiarisce, di “riorientamento delle priorità del Partito democratico”, finora troppo impegnato in discussioni sì importanti, come la riforma costituzionale, la legge elettorale e le alleanze, ma non abbastanza importanti per la vita delle persone.

 

Procediamo con ordine. Il voto delle elezioni amministrative, dice Fassino, consegna ai vertici del partito più un segnale d’allarme: “Dobbiamo essere consapevoli che da queste difficoltà non si esce in pochi giorni, anche se può esserci la tentazione di trovare in fretta una soluzione semplice. Le difficoltà che si sono manifestate in queste elezioni amministrative hanno più di una ragione e l’esperienza mi dice che serve più di qualche settimana per uscirne. Evitiamo dunque scorciatoie, fughe in avanti e semplificazioni. Evitiamo anche di proiettare il risultato delle amministrative sulle future elezioni politiche. Anche perché la legge elettorale non sarà la stessa”. Dunque, che cosa è successo nelle ultime settimane? “Alle amministrative è scattato quello che si era già verificato nel 2016: al ballottaggio in molte città i Cinque stelle hanno votato insieme al centrodestra, ribaltando il risultato del primo turno. Alle elezioni politiche questa dinamica non si verificherà, perché è difficile pensare che ci sarà una legge elettorale con il doppio turno”.

 

Insomma le amministrative sono amministrative, le dinamiche nazionali hanno naturalmente il loro peso, ma poi pesano anche “le dinamiche locali, la credibilità dei candidati, come si è governato, le alleanze costruite. Detto tutto questo, sarebbe sbagliata qualsiasi minimizzazione, perché questo voto è più di un campanello d’allarme”. Da queste elezioni infatti emergono tre serie criticità, dice Fassino. “Primo: storicamente, soprattutto alle elezioni amministrative, Pd e centrosinistra avevano una capacità di espansione che superava l’elettorato già acquisito. Questa volta, invece, nella maggioranza delle città in cui si è votato, abbiamo visto che Pd e centrosinistra non hanno aumentato lo spazio dei consensi, ma lo hanno ridotto. E’ stato piuttosto il centrodestra a mettere in campo una capacità di aggregazione più alta. Secondo: abbiamo sempre avuto un elettorato molto fedele che ci metteva al riparo dal rischi dell’astensione. Non è stato così e anche noi soffriamo della disaffezione elettorale. Terzo elemento: anche questo voto conferma l’assoluta fragilità del partito dal punto di vista della sua capacità di strutturarsi come organizzazione, in relazione al territorio in cui si forma il consenso. Io penso che su questi tre temi si debba riflettere attentamente”.

 

Questa è la radiografia del voto. La cura qual è? “Serve un riposizionamento della nostra agenda, perché questo voto segnala che c’è una generale disaffezione degli elettori, come si capisce dalla partecipazione al voto inferiore al 50 per cento. D’altronde, nell’ultimo anno l'agenda politica si è concentrata su tre temi: riforma costituzionale, legge elettorale, le alleanze. Sono argomenti ovviamente strategici, che la politica deve risolvere, ma che non investono la vita quotidiana dei cittadini. Ciò ha favorito un allontanamento e un distanziamento dell’opinione pubblica. Dieci hanno fa abbiamo dato vita al Pd per dare all’Italia un grande partito riformista. Il rilancio del Pd passa dalla capacità di proporre un’agenda riformista per risolvere i problemi del paese. Occupiamoci di crescita, che comincia a esserci ma è ancora bassa. Diamo risposte all'inquietudine delle famiglie, che in primo luogo riguarda il futuro dei propri figli. Ieri è esploso in modo acuto il tema dell’immigrazione, al punto di indurre il governo a prendere la decisione di chiudere i porti per imbarcazioni che battono una bandiera diversa da quella italiana o dell'Unione Europea. Il tema della sicurezza ha attraversato la campagna elettorale. A Sesto San Giovanni il centrosinistra aveva nel suo programma la costruzione di una moschea; il centrodestra, invece, la costruzione di un nuovo commissariato. Hanno vinto loro. Ora, io non dico che loro avessero ragione, ma ci devi fare i conti. Per questo dico che dobbiamo ripartire dai problemi della vita delle persone”. Il Pd, dunque, dice l’ex sindaco di Torino, “deve mettersi al lavoro per promuovere un grande cantiere riformista, aperto a un confronto largo con la società italiana. Prepariamo un programma di governo da offrire agli elettori, sulla base del quale definire anche il nuovo profilo di un campo di centrosinistra. Negli ultimi mesi, dopo la sconfitta del referendum, si è sviluppato un dibattito sulle alleanze francamente astratto. Le alleanze si costruiscono in funzione del progetto che si vuole realizzare. Per questo dico che dobbiamo ricostruire l’ordine giusto dei fattori: le alleanze non vengono prima del progetto. E la ricostruzione di un'alleanza di centrosinistra, di cui abbiamo bisogno, e il suo perimetro facciamolo derivare dal confronto sul progetto riformista. Mi auguro dunque che dalla direzione del 10 luglio esca questo impianto”. Renzi, insomma, non è in discussione: “Abbiamo fatto un congresso due mesi fa. Le primarie si sono concluse con due milioni di partecipanti e quasi il 70 che ha votato per Renzi. Non vi è dunque una questione di leadership da riaprire, anche perché in 10 anni abbiamo cambiato cinque segretari. Al centro della nostra iniziativa ci deve essere come rilanciamo il profilo riformista per cui abbiamo fondato dieci anni fa il Pd”.

 

Quindi, secondo Fassino, le parole di Walter Veltroni prima e Dario Franceschini poi non intendono mettere in discussione la permanenza di Renzi alla guida del Pd. “Non mi pare che Veltroni e Franceschini abbiano posto problemi sulla leadership, ma sul profilo dell'azione del Pd. Nel 2002, alle prime elezioni amministrative dopo la sconfitta alle politiche del 2001, strappammo alla destra Verona, Gorizia, Alessandria e Asti. Quattro città che stavolta abbiamo perso. Dunque è chiaro che questo voto ci consegna dei problemi e sarebbe sciocco dire che non è successo nulla. Nel giro di due anni c’è stato uno smottamento elettorale in tante città italiane. Però non significa che dobbiamo mettere in discussione la leadership e tanto meno la scelta di 10 anni fa di fondare il Pd. Al contrario, se guardo a quello che è successo in questo decennio, dico che i motivi per avere il Pd sono ancora più forti rispetto al 2007. Serve il rilancio del progetto riformista. Ed è su questo che vanno ricostruiti il nostro rapporto con la società e le alleanze”.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.