Paolo Gentiloni e Matteo Renzi (foto LaPresse)

Il falso dramma della congiura nel Pd

Claudio Cerasa

Il problema di Renzi non sono i nemici, che ci sono sempre stati, ma è la difficoltà di mettere insieme tattica e visione. Perché la congiura si sfida con la congiuntura e con un vero investimento sul governo Gentiloni

Congiura è la parola più semplice da utilizzare per fotografare lo stato attuale della sinistra italiana. Dici congiura, dici complotto, dici cospirazione, e tutto sembra essere improvvisamente chiaro, no? Nel nostro paese, lo sappiamo, c’è un pezzo importante del mondo progressista che non sopporta più Matteo Renzi, che sogna di avere rapidamente il suo scalpo e che venderebbe la propria zia pur di togliersi dalle scatole il segretario del Pd. Quel pezzo di mondo progressista è in espansione ed è formato da pezzi da novanta dell’universo del centrosinistra. Ci sono molti ex presidenti del Consiglio, molti ex candidati presidenti del Consiglio, molti ex segretari del Pd.

 

La congiura esiste, e sarebbe da stupidi non vederla, ma la congiura, intesa come il tiro al piccione chiamato Renzi, non è in nessun modo la vera novità politica di questi giorni. La dimensione del dissenso portata avanti da alcuni storici volti del centrosinistra nei confronti dell’attuale segretario del Pd è certamente significativa ma non può essere considerata come l’elemento distintivo per capire fino in fondo la vera differenza tra il Renzi uno e il Renzi due. Renzi, si sa, ha sempre avuto un numero spropositato di non amici, ma la ragione per cui oggi i suoi nemici riescono a catturare l’attenzione di molti osservatori e di molti elettori più di qualche anno fa non è legata al risultato negativo delle amministrative. È legato a qualcosa di più importante che riguarda il vero elemento deficitario del renzismo: un progetto per il futuro dell’Italia.

  

 

La differenza vera e profonda tra la prima fase del renzismo e la nuova fase del renzismo è che in quattro anni il segretario del Pd ha visto disgregarsi improvvisamente il patrimonio politico e culturale che aveva costruito intorno a sé. Renzi si era presentato sulla scena politica con l’idea di interpretare fino in fondo la vocazione maggioritaria del Partito democratico e aveva legato il suo sogno principalmente all’affermazione di un modello politico e culturale che oggi non esiste più: il modello del sindaco d’Italia. Anche grazie alla costruzione di quel modello, venuto poi a mancare definitivamente con il No al referendum costituzionale, Renzi è riuscito a costruire un percorso importante, pure durante i mille giorni di governo, che gli ha permesso di presentare alcune riforme che hanno ispirato l’attuale presidente francese Emmanuel Macron (vedi il Jobs Act) e che sono anche alle origini della lenta ma graduale ripresa italiana (ieri hanno rivisto al rialzo il pil dell’Italia sia il centro studi di Confindustria sia gli analisti di Standard & Poor’s, i primi passando da 0,8 a + 1,3 e i secondi passando da 0,8 a +1,2). Sarebbe un errore non riconoscerlo o non ammetterlo. Così come sarebbe un errore non riconoscere o non ammettere che la fragilità di Renzi non è legata al voto delle amministrative o alla rivolta dei rottamati o alla ribellione degli scissionisti, ma è legata al fatto che in questo momento della sua vita politica il segretario del Pd ha certamente una tattica chiara, mentre non si può dire che abbia una precisa visione.

 

Il posizionamento c’è, è quello giusto ed è alla luce del sole e Renzi ha capito perfettamente che l’unica rottamazione possibile oggi non è quella relativa ai vecchi volti della sinistra ma è quella relativa a un’antica tradizione politica, che è quella dell’Unione, quella delle accozzaglie della sinistra, quella delle armate Brancaleone che, per parafrasare Omero, infiniti addusse lutti agli ulivei. Renzi ha dunque ragione a non volersi fare imbrigliare ma per non farsi imbrigliare davvero, e non cadere nella trappola di parlare di coalizioni, di alleanze, di algebra anche quando nega di volerne parlare, deve dimostrare di avere un guizzo, una nuova storia da raccontare, una nuova piattaforma da costruire, un nuovo progetto intorno al quale costruire un’idea per l’Italia. Difendere uno spazio politico che gli permette di essere ancora oggi una delle poche alternative all’Italia dei populismi e degli sfascismi e dei grillismi è una condizione certamente necessaria, ma drammaticamente non sufficiente per riaccendere una lampadina e non rimanere impaludato nella sola logica della tattica.

 

 

A Renzi serve un guizzo, che al momento non si vede, ma serve soprattutto mettere a fuoco, con urgenza, una questione vitale per il futuro non solo della sinistra ma anche dell’Italia. La questione riguarda il rapporto con questo governo e in particolare con il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Sappiamo tutti, o quasi, che le elezioni anticipate, a settembre, sarebbero state una soluzione giusta per mettere la prossima e cruciale legge di Stabilità nelle mani di un governo solido e non traballante come quello di oggi, sostenuto da una maggioranza fragile e da un Parlamento delegittimato dal voto del 4 dicembre. Ma ora che le elezioni anticipate sono fuori dai radar dalla politica, il segretario del Pd ha almeno dieci mesi per investire forte nel governo Gentiloni, prima che il governo Gentiloni investa Renzi. E investire nel governo non significa rinnovare costantemente la fiducia al presidente del Consiglio, cosa che Renzi fa, ma significa intestarsi una grande operazione politica (per esempio, ma ci torneremo, il progetto di Flat Tax suggerito dall’Istituto Bruno Leoni) finalizzata a rottamare giorno dopo giorno il passato della sinistra attraverso una serie di passaggi utili ad avvicinarsi alla prossima legge di stabilità.

 

La sinistra del passato, con i suoi tic ideologici a trazione sindacale, non la si marginalizza litigando ogni giorno con D’Alema, con Prodi o con Bersani, ma la si rende inoffensiva dando ogni giorno continuità ad alcune delle riforme pro mercato e pro crescita messe in cantiere durante i mille giorni; non ostacolando i provvedimenti sulla concorrenza; e rivendicando le buone azioni che possono maturare anche all’interno di questo governo come quella simbolicamente importante messa a segno due giorni fa in Parlamento, nel corso dell’approvazione dell’accordo tra Unione europea e Canada sul libero commercio. L’accordo tra Unione europea e Canada (Ceta) è stato approvato con i voti del Pd e di Forza Italia. Mdp (Bersani & co.) non ha partecipato al voto mentre Lega, Movimento 5 stelle e Sinistra italiana hanno votato contro. È un fatto politico importante, non sufficientemente valorizzato né dal governo né dal segretario del Pd. E valorizzarlo avrebbe avuto un significato particolare, come ricordato ieri dal professor Stefano Ceccanti: ma se si vota in modo difforme su una scelta cruciale connessa all’identità stessa dell’Unione europea come ci si può presentare insieme davanti agli elettori anche qualora la legge elettorale desse un premio alle coalizioni?

 

L’esempio del Ceta è un esempio piccolo ma significativo che andrebbe replicato anche su altri terreni e che indica una traiettoria precisa a Renzi: l’unica possibile da percorrere. Primo: investire nel governo per non farsi investire. Secondo: affrontare la congiura sfavorevole puntando forte sulla congiuntura favorevole. L’Italia corre meno del resto d’Europa ma ha ricominciato a muoversi. Può piacere o no, ma il destino della sinistra italiana, e non solo, oggi non dipende dalle coalizioni o dalle non coalizioni. Dipende, prima di tutto, da che progetto per l’Italia mostrerà di avere oggi un politico importante che prima di essere candidato premier (essere candidati premier con il proporzionale è una fake news: il prossimo presidente del Consiglio lo sceglierà il capo dello stato) è sopra ogni altra cosa il capo del partito più grande del paese che detta i tempi a questo governo e che anche grazie a questo governo potrebbe mostrare di avere una nuova idea per conquistare il paese. Vale la pena provarci, no? 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.