Carlo Calenda (foto LaPresse)

Calenda l'attendista, corteggiato come un Pisapia

Luciano Capone

Tecnico stimato e politico temuto. Ma non chiamatelo indeciso

Roma. Tutti lo vogliono, lo elogiano per tentare di afferrarlo e poi gli tirano calci negli stinchi quando sfugge. Carlo Calenda è una specie di Giuliano Pisapia di centro, credibile rappresentante del mondo produttivo ma, come l’avvocato milanese, senza molte truppe. Insieme sono una perfetta coppia di foglie di fico, anteriore e posteriore, per presentarsi in maniera più decorosa davanti agli elettori. Ma mentre Pisapia per portare a termine la sua fumosa missione di tenere unita una sinistra ideale che non esiste nella realtà è indeciso a tutto, Calenda è un uomo con obiettivi chiari e determinazione ferrea. La dimostrazione è in una sua foto del 2014: seduto in moto dietro a un ribelle, nella foresta di Gorongosa in Mozambico, dove si era recato per far firmare una tregua tra il governo di Maputo e i guerriglieri del Renamo, in modo da facilitare gli affari delle imprese italiane. Diplomazia, capacità di gestire i dossier e risolutezza nel portarli a termine. Per questo tutti lo corteggiano e lui si fa desiderare, un po’ ci sta e un po’ sfugge.

  

Si è appena incontrato con Romano Prodi che, visto il suo nuovo ruolo di Vinavil del centrosinistra, lo vuole incollare come pezzo destro della nuova Unione, nel ruolo che fu di Clemente Mastella (a Pisapia toccherebbe quello di Bertinotti). Matteo Renzi, innamorato e tradito, ne stima la competenza e ne teme l’ambizione, vorrebbe o neutralizzarlo con un posto in un listone di centrosinistra o distruggerlo. Angelino Alfano e la galassia centrista lo vedono come una specie di Mario Monti, un leader utile a traghettare i parlamentari in pena da una legislatura all’altra. Silvio Berlusconi vede nel manager che viene dal privato un ottimo leader del centrodestra. Altri sperano che sia il Macron italiano. Ognuno proietta su Calenda le sue ambizioni, desideri, illusioni, paure e frustrazioni. 

 

In questi anni da ministro dello Sviluppo economico, prima nel governo Renzi e adesso in quello Gentiloni, Calenda si è guadagnato la stima di tanti elettori e la fiducia del mondo delle imprese. Ha sempre parlato chiaro, anche a rischio di essere impopolare, ad esempio difendendo in Europa i trattati di libero scambio (Ceta e Ttip) quando erano in pochi a farlo (poi ha vinto Trump e tutti si sono scoperti liberoscambisti). Ha approvato il piano Industria 4.0, per favorire l’innovazione e la trasformazione del tessuto industriale, uno dei provvedimenti del governo Renzi più apprezzati dalle aziende. Renzi, che gli aveva dato fiducia e l’aveva voluto nel suo governo, non gli ha perdonato il “tradimento” politico che si è manifestato dopo la sconfitta referendaria, nel momento più difficile dell’ex premier, con una serie di interventi critici. Paradossalmente la reazione scomposta e scoordinata dei renziani ha rafforzato ancora di più l’immagine del Calenda anti Renzi. Sono piovute raffiche di critiche e insinuazioni su ogni suo intervento, a volta in maniera paradossale, come ad esempio nel caso del ddl Concorrenza. Era una delle innovazioni del governo Renzi, che Calenda si è ritrovato tra le mani e che ha chiesto di condurre in porto dopo anni di navigazione burrascosa in Parlamento. Ma giovedì, per fargli un dispetto, il Pd ha preso la sua legge sulla concorrenza e se l’è affossata. Così impara.

 

Nel frattempo Calenda ha continuato a costruire la sua immagine di leader con interventi pubblici, tra cui l’applauditissimo intervento all’assemblea di Confindustria, parlando di investimenti, sviluppo, Europa e lavoro. Resta da vedere cosa farà in futuro. Memore dell’esperienza di Scelta civica non sarà un federatore di centro, difficile che rientrerà nei ranghi del renzismo, impossibile che diventi il delfino di Berlusconi e il leader del centrodestra, impensabile che faccia la stampella centrista attaccata col Vinavil a un caravanserraglio di sinistra. Ma scende o non scende? E con chi? Probabile che a questo giro si tirerà fuori dalla mischia, per rientrare in gioco dopo l’esperienza di un Parlamento ingovernabile. L’attesa come scelta strategica. Per un liberale europeista come Calenda la scommessa è diventare un Macron, il rischio è finire come Montezemolo.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali