Matteo Renzi e Silvio Berlusconi (foto LaPresse)

Chi sono i veri sicari del maggioritario

Claudio Cerasa

Perché la retorica vuota dell’uomo solo al comando ha portato alla fine del Nazareno e al ritorno della tv in bianco e nero

Il professor Valerio Onida, giurista italiano, già presidente della Corte costituzionale, grande animatore del No al referendum costituzionale, in un’intervista rilasciata ieri a Repubblica ha ammesso con onestà intellettuale un concetto che il surreale popolo del No Prop (inteso come fronte trasversale indignato per il ritorno a un sistema elettorale proporzionale) dovrebbe imparare a memoria: è semplicemente da ipocriti non capire che il Sì al sistema proporzionale discende dal No che è arrivato il 4 dicembre al sistema maggioritario, e in questo senso “questa legge”, che oggi verrà approvata alla Camera, “consente di rispecchiare la politica di oggi”. Ragionamento perfetto. Ma con unico difetto. Il professor Valerio Onida lega il ritorno maestoso dell’Italia dei Pomicino, dei Cnel, dei De Mita e dell’Italia che si occupa insomma più della rappresentatività che della governabilità, più di non far perdere nessuno che di far vincere qualcuno, al solo risultato dello scorso 4 dicembre.

 

Tutto questo è vero ma c’è qualcosa di più che andrebbe aggiunto. Perché a ben vedere la fine del romanzo politico maggioritario non si è manifestata improvvisamente sei mesi fa grazie ai pifferai magici che hanno convinto diciannove milioni di elettori a votare contro una riforma costituzionale principalmente per dare un calcio nel sedere a Matteo Renzi. Il saccheggio del romanzo maggioritario ha una storia molto più articolata che non si limita alla campagna del referendum costituzionale e che coincide perfettamente con lo spazio temporale occupato dalla Seconda Repubblica. Chi frigna contro l’affermazione di un sistema elettorale che ci riporterà rapidamente ai tempi della Prima Repubblica (senza la qualità di quella classe dirigente, a parte Pomicino e De Mita) dovrebbe riflettere un istante – caro Massimo Giannini, cara Rosy Bindi – sui danni prodotti da vent’anni di retorica vuota contro l’uomo solo al comando. La lotta contro l’uomo solo al comando non è mai stata soltanto una lotta contro un solo uomo al comando (Berlusconi, Renzi, prima ancora Craxi) ma è sempre stata qualcosa di diverso: una lotta implicita e feroce contro tutti gli strumenti che avrebbero permesso alla politica di affermare il suo primato e di governare così i professionisti dei veti.

 

Dall’inizio della Seconda Repubblica a oggi, e forse anche da prima, molti degli stessi editorialisti e degli stessi politici che in queste ore stanno mostrando segnali di disperazione per la morte del sistema maggioritario hanno in realtà lavorato sodo per portarci allo stadio in cui ci troviamo in questo momento, ovvero con un Parlamento che quasi all’unanimità è pronto ad approvare una legge elettorale proporzionale. Lo hanno fatto creando una sostanziale equivalenza tra l’affermazione di un sistema maggioritario e l’affermazione di un potenziale tiranno. Lo hanno fatto trasformando la Carta costituzionale nel manifesto implicito delle necessaria difesa della democrazia attraverso l’ingovernabilità del paese. Lo hanno fatto infine scomunicando tutti coloro i quali hanno tentato di rafforzare il primato della politica riequilibrando i rapporti di forza con la magistratura e con i sindacati. Chi oggi soffre per la fine drammatica della televisione a colori (il maggioritario) e l’inaspettato ritorno della televisione in bianco e nero (il proporzionale) dovrebbe dunque concentrarsi non su come stanno andando le cose in Parlamento, ma su quello che sarebbe stato possibile fare (e non è stato fatto) per difendere un sistema a colori ed evitare il ritorno della politica in bianco e nero. Il tutto naturalmente con un paradosso da ridere. I sabotatori del maggioritario non volevano né Renzi e Berlusconi. Ora, grazie al proporzionale, per difendersi da un blog sòla al comando, dovranno tifare per avere Renzi e Berlusconi soli al comando dell’Italia. Risate.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.