Il nuovo bipolarismo senza girarci attorno

Claudio Cerasa

Dimenticate il dibattito sulla legge elettorale, concentratevi sulle vere divisioni della politica e scoprirete perché il mostro grillin-salviniano sarà archiviato non con una rivoluzione demagogica, ma con la forza tranquilla della ragione

Non sappiamo quando si voterà, come si voterà, con quale legge si voterà, in quale mese si voterà, con quali collegi si voterà, con quali candidati si voterà, con quali liste si voterà ma sappiamo che a prescindere dai dettagli, dai tecnicismi, dalle soporifere soglie di sbarramento, quando arriveremo alle elezioni (presto, speriamo) la scelta che ciascuno di noi farà, di fronte alla scheda elettorale, sarà diversa rispetto a quella che ci verrà suggerita da tutti i partiti che in un modo o in un altro oggi si trovano in competizione l’uno con l’altro. E la scelta, può piacere o no, sarà una scelta doppia, e sarà più sullo stile del Giano Bifronte che sullo stile della vocazione maggioritaria.

 

Il perché è facile da spiegare. Il centrodestra unito, almeno a livello nazionale, non esiste più e non esisterà più. Ed è sufficiente ascoltare cosa dice (non solo in privato) Berlusconi di Salvini per capire che la separazione delle carriere tra Forza Italia e la Lega Nord non è transitoria, ma definitiva. Dall’altra parte, il centrosinistra unito potrebbe ancora esistere se la sinistra uscita fuori dal Pd fosse qualcosa diverso da una federazione di micro accozzaglie tenute insieme solo dal doppio sputo dell’anti renzismo e dell’anti berlusconismo, ma al momento non c’è alcuna ragione per credere che le sinistre italiane possano ottenere un risultato diverso rispetto a quello incassato nel 2013 e nel 2008 dalle altre autorevoli sinistre che si sono presentate alle elezioni fuori dal tradizionale partito di sinistra (zeru tituli).

 

Né il centrodestra né il centrosinistra, dunque, hanno vere speranze di poter tornare al governo con i propri vecchi alleati e la questione non è legata solo ai numeri offerti dai sondaggi ma a dinamiche che riguardano le traiettorie delle varie offerte politiche. Diciamoci la verità. Può un partito che si ispira al centrodestra sul modello Merkel (pur tra mille aggiustamenti e mille tattici palleggiamenti) essere compatibile con un partito che si ispira al modello Le Pen? Può un partito che si ispira a una sinistra sul modello Macron essere compatibile con un partito che si ispira a una sinistra sul modello Mélenchon? Ovviamente no. In questo senso, le convergenze parallele tra un centrosinistra che si ispira al modello Macron (il Pd) e un centrodestra che si ispira a un modello Merkel (Forza Italia) sono convergenze che in uno scenario di frammentazione esasperata diventano naturali. E seppure sul tema dei diritti centrosinistra e centrodestra siano ancora differenti l’uno con l’altro, è evidente che sul tema dei doveri (economia, Europa, politica internazionale, lotta al terrorismo) la distanza che esiste tra un Renzi e un Berlusconi è infinitamente minore rispetto alla distanza che esiste tra un Renzi e un Fassina o tra un Berlusconi e un Salvini.

In Francia, in caso di instabilità, le coalizioni e le grandi coalizioni vengono decise alle urne dagli elettori (beati loro). In Italia, dove la frammentazione non è diversa rispetto a quella francese, le grandi coalizioni, in caso di instabilità, vengono fatte dai parlamentari e dai capipartito.

 

Non è il migliore dei mondi possibili, come giustamente ha notato ieri sul Corriere Walter Veltroni, ma è l’unico dei mondi possibili in un contesto come quello attuale in cui il sistema maggioritario è stato di fatto cassato lo scorso 4 dicembre. E Bisogna essere ingenui (Veltroni non lo è) per stupirsi del fatto che la vittoria del No al referendum costituzionale ha partorito il topolino di una legge elettorale disposta a sacrificare la governabilità sull’altare della rappresentatività. In questo contesto, dunque, i partiti si muovono all’interno di un percorso in cui l’autosufficienza è una meravigliosa e romantica utopia alla quale si è liberi di credere se non si vuole guardare negli occhi quella che è invece la realtà dell’Italia di oggi.

 

E la realtà di oggi è che nel nostro paese ciascun elettore quando si ritroverà a votare non sceglierà solo un partito ma sceglierà una delle due possibili combinazioni che matureranno nel prossimo Parlamento: il governo Renzoni (Renzi più Berlusconi), il governo Salvillo (Salvini più Grillo). Può sembrare solo un gioco di parole ma la vera partita dei prossimi mesi per l’Italia sarà questa ed è bene essere sinceri fino in fondo. Da una parte si proverà a dare fiducia a un Giano Bifronte disposto pur con mille contraddizioni a unire le proprie energie per governare la globalizzazione, rafforzare il peso dell’Italia in Europa e occuparsi in modo condiviso dei doveri dell’Italia. Dall’altra parte si proverà a dare fiducia a un Giano Bifronte disposto a unire le proprie energie per portare al governo una demagogia sfascista intenzionata a sospendere la democrazia rappresentativa e trascinare l’Italia lontana dall’Europa trasformandola rapidamente in una repubblica giudiziaria.

Non è una questione di inciucio, né da una parte né dall’altra. E’ una semplice condivisione di una cultura istituzionale. Di un derby tra chi crede che sia inutile spendere soldi per aiutare le imprese a creare posti di lavoro, tanto il lavoro non c’è, e chi crede invece che i pochi soldi che ci sono in giro vanno utilizzati per rendere le imprese più competitive e permettere loro di dare reddito a chi oggi non ce l’ha. Di un derby tra chi si limita a discutere dei problemi dell’Italia occupandosi dei capri espiatori (l’Europa, l’euro, la casta, il sistema marcio) senza offrire delle soluzioni concrete che siano diverse da quelle demagogiche (il referendum sull’Euro) e chi invece capisce che i problemi dell’Italia sono chiari e ben definiti e sono facili da argomentare: la spesa pubblica improduttiva, la produttività che non funziona, i servizi pubblici locali non liberalizzati, la giustizia non riformata fino in fondo, le regole sul lavoro presenti nel privato diverse da quelle del settore pubblico, la contrattazione salariale non ancora portata a termine.

 

Non sappiamo quando si voterà, come si voterà, con quale legge si voterà e sinceramente non ci interessa molto quando si voterà, come si voterà, con quale legge si voterà, con quali liste si voterà, con quanti Alfani ci si scontrerà. Ci interessa di più spiegare che il mondo in cui ci troviamo oggi è questo. E che le opzioni che si avranno quando si tornerà a votare tutto sommato somigliano a quelle di fronte alle quali si sono trovati gli elettori francesi. Apertura o chiusura. Europa o non Europa. Euro o non euro. Globalizzazione o non globalizzazione. Protezionismo o non protezionismo. Sovranismo o non sovranismo. Stato di diritto o non stato di diritto. Trumpismo o non trumpismo. Giustizia giusta o giustizia sommaria. Buon senso o non senso. In Francia, grazie al sistema elettorale, i due modelli si sono incarnati nel corpo di due leader. In Italia, grazie al sistema elettorale che ci sarà, i due modelli si incarneranno nei corpi di più leader. La differenza non è da poco ma è una differenza che va considerata insieme a un altro elemento che prima o poi andrà messo a fuoco in modo deciso. In Italia il partito del buon senso, pur con tutti i suoi limiti, è una cosa seria che ha speranze concrete di vincere le prossime elezioni. Il partito del non senso è una cosa non seria che non solo non vincerà le elezioni ma che nega una verità elementare: che l’unico modo per poter arrivare al governo è mettere insieme l’Italia dello sfascio. Le formule e i nomignoli non ci piacciono. Ma se per caso vi state chiedete se sia innaturale o no una convergenza tra un Renzi e Berlusconi, pensate un istante all’alternativa, mettetela bene a fuoco, e capirete facilmente perché la grande partita che si giocherà nei prossimi mesi in Italia è quella di portare acqua al mulino di un nuovo e crescente partito unico, che alla demagogia cialtrona e irresponsabile non può che contrapporre non una rivoluzione ma la forza tranquilla della ragione.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.