Illegittima difesa

Giovanni Fiandaca

Voti e pistole. Perché è pericolosa una politica che chiede a gran voce la riforma di un istituto così importante

Quanti sanno che nel recente dibattito sulla riforma della legittima difesa sono venute alla luce preoccupazioni e motivazioni che, lungi dall’essere dell’ultima ora, tendono di tanto in tanto a essere riproposte a partire dal tardo Ottocento? Se ne ha, in realtà, una puntuale conferma se si ripercorre l’evoluzione storica dell’istituto della legittima difesa nel progressivo passaggio dalla cultura liberale che dette vita al codice Zanardelli del 1889 (primo codice penale dell’Italia unita) alla successiva cultura conservatrice-autoritaria che nei primi del Novecento sostanzialmente anticipò l’ideologia penale fascista e, infine, al codice Rocco varato dal regime mussoliniano (com’è noto, codice tuttora vigente e sottoposto a ripetute potature, modifiche e aggiunte in chiave prima di “defascistizzazione” e poi di adeguamento all’evoluzione dei tempi, che l’hanno peraltro reso sempre più somigliante a un vestito d’Arlecchino!).

 

In questo passaggio storico si è assistito, sia sul piano del dibattito teorico sia su quello dei mutamenti normativi, a una tendenza volta ad ampliare i presupposti della impunità del cittadino che si autodifende da aggressioni altrui, e ciò sotto una duplice angolazione visuale. Da un lato, riconoscendo – così come ha fatto esplicitamente il codice Rocco all’art. 52 – che l’autodifesa è legittima non solo per proteggere la propria vita e incolumità personale (cosi come si limitava, tendenzialmente, a stabilire il precedente codice liberale Zanardelli), ma un qualsiasi “diritto”, e dunque anche i beni patrimoniali di cui si sia proprietari, la cosiddetta “roba”. Dall’altro, non mancando di prendere in considerazione circostanze peculiari di maggiore vulnerabilità della persona aggredita, come ad esempio l’essere sorpresi da un ladro dentro casa o l’essere minacciati da un rapinatore di notte e in luogo solitario, tali da poter far apparire a maggior ragione necessitato, e dunque giustificato persino l’impiego di un’arma letale per difendere la propria incolumità o la roba. Ora, questa esplicitazione di situazioni di minorata difesa è stata peraltro tradotta in legge non già in epoca fascista, bensì assai più tardi con la discutibilissima riforma di ispirazione populista varata nel febbraio 2006 sotto il terzo governo berlusconiano. Come si ricorderà, in tale occasione si levarono non poche voci critiche a contestare la effettiva necessità di aggiungere, nel testo originario dell’art. 52 del codice penale, l’autonoma e più specifica ipotesi della cosiddetta legittima difesa “domiciliare”, connotata da una presunzione legislativa di proporzione tra aggressione e difesa nei casi – appunto – in cui la prima si verifichi all’interno di un appartamento o di altro luogo chiuso. La maggior parte dei tecnici infatti, oltre a denunciare il rischio che la suddetta riforma veicolasse il fuorviante messaggio di una “licenza di uccidere” i ladri di appartamento o i rapinatori di negozi, mise subito in evidenza la scarsa chiarezza della nuova norma e la sua conseguente inidoneità a indicare al cittadino precise modalità di legittima condotta autodifensiva.

 

In effetti, il discorso si ripropone pressoché invariato ai nostri giorni, ma con una differenza non secondaria: a proporre in chiave populista un allargamento ulteriore dei confini della legittima difesa è oggi una maggioranza politica non di centrodestra, ma di centrosinistra (sia pure allargato). Il che non può non fare pensare, anche perché le motivazioni sottostanti all’odierno proposito di riforma finiscono col riecheggiare preoccupazioni di stampo politicamente conservatore, se non autoritario tout court. A cominciare – rileverei – dalla proposta che sia lo Stato a farsi carico delle spese processuali, compreso il compenso per gli avvocati, degli imputati cui venga infine giudiziariamente riconosciuto di aver agito in legittima difesa. Al di là di buone intenzioni per dir così solidaristiche, a ben vedere sembrerebbe in questo modo implicitamente profilarsi una concezione del cittadino che si autodifende quale una sorta di organo investito della funzione di contrastare la criminalità per delega da parte di uno Stato impossibilitato a intervenire in modo efficace e tempestivo: trattandosi di una specie di delega al privato del dovere statale di tutelare la sicurezza, ecco che finisce con l’apparire un ingiustificato e penoso incomodo che debba subire un accertamento giudiziario anche chi abbia agito al solo scopo di difendersi! Sennonché, un dato in proposito è davvero sorprendente. Cioè sorprende non poco che questo tipo di concezione della legittima difesa la troviamo esplicitamente teorizzata da un celebre campione dell’illiberalismo penale forcaiolo come il giurista Vicenzo Manzini, il quale in un emblematico scritto del 1911 si spinse sino a proporre “una speciale procedura istruttoria” per i casi di reazione autodifensiva; e ciò, non a caso, nel quadro di una rinnovata visione della legittima difesa come dovere del cittadino “galantuomo” tenuto, in sostituzione dell’autorità statale, a contrapporsi ai “malfattori” quali nemici della società degli onesti: per cui l’eventuale uso delle armi contro i delinquenti aggressori “non solo rappresenta l’esercizio di una facoltà, ma anche l’adempimento d’un dovere sociale, quale è certamente quello di contribuire a rintuzzare la temerarietà e la protervia dei malviventi, a intimidire e disperdere la malavita”.

  

Si potrà obiettare che l’ispirazione politica delle attuali proposte di riforma non è del tutto assimilabile al populismo penale di marca dichiaratamente autoritaria di cui era figlia una legittima difesa concepita come sopra. E’ vero. Ma è altrettanto vero che, allorché un legislatore si preoccupa di assecondare aspettative popolari di più ampi spazi di autodifesa, anche con ricorso alle armi, in funzione sedativa di crescenti ansie per paventate minacce criminali (per di più, soggettivamente sovrastimate rispetto al rischio oggettivo), è in ogni caso implicito questo tipo di messaggio: che la legge cioè avalla la contrapposizione aprioristica tra i cittadini buoni e onesti, autorizzati senz’altro a sparare anche per difendere soltanto la roba, e i delinquenti malvagi e pericolosi, da combattere come nemici della società privi di diritti, come “non persone” cui la vita può essere tolta senza scrupoli . Cosa potrebbe esserci di più populistico-razzistico di una simile contrapposizione ideologica, decisamente incompatibile – fino a prova contraria – con la cultura penale che dovrebbe essere propria in particolare di un partito (teoricamente) progressista come il Pd?

   

Al di là del preoccupante sfondo ideologico, risultano per giunta confuse e pasticciate le formule normative già approvate dalla Camera dei deputati, rispetto alle quali la stessa pur brutta riforma del 2006 rischia di apparire un buon manufatto legislativo. Il perseguito allargamento dei confini della difesa legittima infatti include non solo la reazione ad un’aggressione commessa “in tempo di notte” (nozione così indeterminata, questa, da concedere al giudice una eccessiva latitudine interpretativa), ma altresì “la reazione a seguito dell’introduzione nei luoghi con violenza alle persone o alle cose ovvero con minaccia o con inganno”. E’ appena il caso di rilevare criticamente che l’equiparazione tra violenza alle “persone” e violenza alle “cose” risulta ingiustificata dal punto di vista del rango dei beni aggrediti; e, inoltre, non è per nulla chiaro il significato della menzione della “minaccia” in alternativa alla violenza (se “violenza” è da intendere in senso letterale, cioè come violenza già consumata, siamo allora fuori dai confini della legittima difesa; se “minaccia” va invece intesa come violenza potenziale, allora è più corretto limitarsi a parlare di minaccia senza fare riferimento alla violenza!).

  

Non appare, infine, condivisibile neppure la proposta iniziale del Pd che si limitava a modificare la disciplina del cosiddetto “eccesso colposo” (art. 59, ult. comma, del codice penale), escludendo la responsabilità a titolo di colpa per i casi in cui l’eccesso di autodifesa derivi da un “grave turbamento psichico causato dalla persona contro la quale è diretta la reazione”. E’ forse superfluo rilevare che uno stato di turbamento psicologico è scontato in pressoché ogni persona che incorre nel pericolo di essere aggredita; specificare che deve trattarsi, ai fini dell’impunità, di un turbamento “grave” a ben vedere non è risolutivo: si pretende che il magistrato si atteggi a psicologo o, piuttosto, si vuole che sia un perito a verificare il livello di gravità dello stato di alterazione psicologica di chi si lascia andare a forme spropositate di reazione?

  

È un sintomo molto preoccupante di degrado democratico il semplice sospetto che proposte così poco felici di allargamento della legittima difesa possano essere motivate, al di là della scadente cultura penale anche delle attuali forze di governo, dalla contingente tentazione di lucrare consenso elettorale strumentalizzando per l’ennesima volta la legge penale quale ansiolitico collettivo a modico prezzo: e ciò a costo di assecondare, anche da parte di settori politici che dovrebbero esserne in teoria immuni, pulsioni populiste (se non proprio “plebeiste”) incompatibili con una democrazia costituzionale degna di questo nome. Quale che ne sia l’ispirazione politica, è comunque certo che le modifiche ormai passate al vaglio del Senato meritano per le ragioni già accennate una radicale bocciatura anche sotto l’aspetto tecnico-giuridico.

  

È in proposito, dunque, auspicabile che la futura discussione parlamentare (ammesso che vi sarà interesse politico a svolgerla davvero, non potendosi escludere che la progettata riforma sia destinata ad abortire) tenga nel dovuto conto il punto di vista fortemente critico manifestato da una fonte particolarmente qualificata quale il Consiglio direttivo dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, che in un apposito comunicato dello scorso 6 maggio ha indirizzato alle forze politiche un monito che vale la pena riportare tra virgolette: “A preoccupare non sono solo le gravi incongruenze e contraddizioni del testo che, se approvato, costituirebbero fonte di disorientamento per la giurisprudenza e, ancor prima, per i consociati (…); ancor più preoccupanti sono le linee di politica criminale sottese al dibattito parlamentare (…). Il rischio è di giungere ad un testo che conduca ad esiti incompatibili con uno Stato di diritto”. Anche se non è la prima volta che la dottrina specialistica boccia senza appello la politica penale concepita dai partiti di governo, il fatto che ciò avvenga pure a proposito di un istituto cruciale come la legittima difesa non può non indurre a un sovrappiù di prudenza prima di varare modifiche affrettate o poco ponderate.

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