Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando (foto LaPresse)

Un Orlando furioso

David Allegranti

“Sì: abbiamo un serio problema di classe dirigente. E i populismi non si combattono avvicinandosi al Cav”. Parla il ministro della Giustizia

Roma. “C’è molto entusiasmo per la vicenda Macron, che indubbiamente costituisce un fatto positivo per aver fermato il lepenismo. Però è un modello che suggerisce l’union sacrée dell’establishment contro i populismi”. Andrea Orlando, ministro della Giustizia, dice al Foglio che lo schema “francese” non è replicabile in Italia, per ragioni istituzionali ma anche culturali, e offre a Matteo Renzi alcune soluzioni per superare i populismi senza ricorrere a nuovi patti del Nazareno. “La grande coalizione in Germania a guida Merkel può assomigliare a qualcosa del genere. Bisognerebbe evitare di non vedere anche l’altra faccia della medaglia. Questo metodo, che ha funzionato in Francia perché c’è il doppio turno, alla fine non affronta nessuno dei temi che genera il populismo e si limita a costruire una specie di tappo ma non a svuotare i bacini nei quali pesca il populismo. C’è chi pensa che il populismo si possa battere mettendo insieme le forze sedicenti responsabili di centrodestra e centrosinistra”. Però, dice il Guardasigilli, “se non inglobi e costituzionalizzi una parte delle domande che alimentano il populismo, il rischio è che queste siano toppe provvisorie. E non è detto neanche che siano maggioritarie. Se oggi l’idea è di fermare il populismo in Italia con un’alleanza con Berlusconi – un Berlusconi invecchiato, merkelizzato – è possibile invece che questo, da un lato, alimenti un rafforzamento del populismo e, dall’altro, determini una rottura irreversibile con pezzi di società che la sinistra dovrebbe naturalmente rappresentare. A me ha colpito il fatto che la Le Pen è stata applaudita nelle fabbriche e Macron fischiato. Il tema non è sociologico, il tema è come si stabilizza il sistema allargando la sua base sociale”.

 

 

Quindi nessuna alleanza con Berlusconi o con Forza Italia? “Non è che io demonizzi l’alleanza con Berlusconi; credo che l’alleanza con Berlusconi rischi, da un lato, di aprire uno spazio enorme al populismo e, dall’altro, di costruire questa specie di fortino che non è detto sia maggioritario, peraltro non più giustificato da obiettivi costituenti”. Quindi le due strade sono “o il partito trasversale dell’establishment o provare a costruire un centrosinistra popolare e di governo”. Dunque bisognerebbe recuperare tutto quello che si è perso a sinistra? Il Pd deve parlare con Bersani e con Civati? “Non è un problema di ceto politico. Ci si può parlare, ma onestamente rappresentiamo tutti poco; non è che se parli con Civati, parli con il proletariato italiano, o se parli con Bersani, parli con la classe operaia. Ma neanche se parli con la Camusso risolvi la questione. Si tratta di ricostruire un rapporto dal basso mettendo al centro il tema della lotta alle diseguaglianze, di ricostruire delle occasioni, dei luoghi di confronto nei quali provare a dare protagonismo a una società che è fortamente disintermediata. Si tratta quindi di capire come farsi carico anche delle parole d’ordine del populismo, come saper rassicurare questi pezzi di società; è giusto essere per la società aperta e per il mercato globale, però se non lo guidi rischi di avere reazioni interne regressive e di chiusura”.

 

 

Il problema, dice Orlando, è governare questi processi, e quindi non affrontare più, come abbiamo fatto in questi 20 anni, in modo ideologico, questi temi, cioè l’idea che di per sé la rete, la globalizzazione, il libero scambio avrebbero determinato un miglioramento complessivo delle condizioni di tutti. A me ha colpito il fatto che Calenda abbia parlato di liberismo pragmatico. Calenda ha idee molto diverse dalle mie, se però chi in questi anni ha teorizzato che l’unica cosa che doveva fare la politica era togliersi dalle scatole adesso invoca la gestione dell’integrazione dei mercati, vuol dire che c’è un diverso grado di consapevolezza dei problemi. Significa che dobbiamo farci carico di un pezzo di rassicurazione di quei settori che sono più fortemente colpiti dalla globalizzazione, materialmente ma anche psicologicamente. Non c’è solo un problema di perdita di reddito, c’è un problema di prospettiva, di futuro”. Non è che farsi carico dei problemi posti dai populisti si traduce in un’alleanza di governo fra Pd e Grillo? “No, perché un conto è guidare dei processi, un conto è cavalcarli per ragioni di consenso. Io ritengo uno spartiacque fondamentale l’integrazione europea. L’integrazione europea è la condizione per guidare quei processi. Il paradosso dei sovranisti è che usano delle paure che ci sono nella società e offrono delle soluzioni destinate a peggiorare ulteriormente la situazione”.

 

  

“Ritornare nella dimensione nazionale – dice Orlando – vuol dire rinunciare a controllare tutti i processi sovranazionali, economici e finanziari, che sono poi le vere cause dell’esplosione della questione sociale in occidente”. Ministro, perché secondo lei Renzi non è il candidato premier giusto? “Non ho mai detto che Renzi non è il candidato giusto; io ho detto che il candidato giusto è quello che mette insieme il centrosinistra. Credo che Renzi abbia più difficoltà di altri a svolgere questo ruolo, perché nel corso degli anni ha tagliato molti ponti, menato molti schiaffi ed è più difficile che faccia la pace colui che ha promosso la guerra. Non è un problema personale, è un dato storico”. Che cosa dice di Renzi il caso Campo Dall’Orto? “Ci dice delle difficoltà di selezionare una classe dirigente; fare tabula rasa ha un certo effetto mediatico ma non è detto che poi sia efficace concretamente”. Il Pd ha un problema di classe dirigente? “Sì, perché non si pone più questo problema da tantissimo tempo e Renzi non l’ha risolto ma non l’ha neanche provocato. Il partito non seleziona più le classi dirigenti in un modo efficace da almeno un ventennio, perché sono saltati tutti i percorsi di formazione, perché s’è determinata una rottura tra politica, cultura e conoscenza, perché la correntizzazione del partito ha reso ancora più complicato questo sistema di selezione. Il problema esisteva. Certo, da chi ne aveva fatto un elemento caratterizzante ci si aspettava qualcosa di più”. Nel caso della Rai, “venivamo dal periodo Tobagi-Colombo, ma anche quella non era una soluzione. Non perché non fossero persone degnissime, ma perché era un modo per delegare alla società civile la selezione della classe dirigente che in altre stagioni facevano i partiti. I partiti hanno delegato alla società civile, alle tecnostrutture, alle banche, all’impresa, ai magistrati, perché con la crisi della credibilità della politica si è pensato di risolvere il problema esternalizzando. Con il risultato poi che i più grandi esternalizzatori di tutti, i Cinque Stelle, hanno vinto. E se è un merito non aver mai fatto politica, la Raggi dovrebbe essere il sindaco migliore d’Italia”.

 

Orlando rivolge dunque un appello al segretario del Pd, gli chiede di “usare la forza che ha ottenuto dal congresso per lanciare un grande progetto di ricostruzione del centrosinistra, coinvolgendo il centrosinistra sociale e provando quindi a mobilitare associazioni, volontariato, un po’ tutti quei luoghi dove si fa politica senza farla formalmente. L’altra proposta è una riflessione seria sulle classi dirigenti e in particolare sui limiti delle classi dirigenti nel Mezzogiorno; trovo che nel Mezzogiorno si sia determinato il più grosso scarto tra rottamazione e realtà. Nel mezzogiorno in sostanza il Pd è un’organizzazione notabilare”. Perché è successo? “Non sono stati trovati nuovi metodi di selezione della classe dirigente. Non è vero che sono andati avanti i capaci piuttosto che i fedeli. Io credo che queste siano le due grandi sfide che Renzi ha davanti. Costruire un’alternativa al populismo che non sia l’unione sacra dell’establishment e rendere credibile il progetto del Pd in alcune aree del paese in cui rischia di non esserlo più. Su questo noi siamo disponibili non solo a collaborare ma a dare un contributo attivo”.

 

Capitolo intercettazioni. Secondo lei vanno aumentate le pene per chi pubblica intercettazioni che violano il segreto istruttorio? “No, perché credo che nell’epoca di Internet siano pericolose tanto le intercettazioni pubblicate quanto quelle circolanti e non pubblicate. Il problema fondamentale è impedire che escano, non la loro pubblicazione. Si tratta di costruire degli strumenti che responsabilizzino molto di più i custodi delle intercettazioni, che riducano il rischio di immissione di intercettazioni che non hanno rilevanza penale”. Se poi “deontologicamente i giornali decidono di non pubblicarle, questa è una cosa che io non posso che apprezzare, ma siamo sempre nell’ambito della riduzione del rischio che se ne faccia un uso improprio. Una volta che ci sono, sono potenzialmente fonte di ricatto o comunque di sputtanamento”. Nella delega che è contenuta nel ddl penale ci sono però “una serie di misure che consentirebbero di ridurre fortemente questo rischio. Il problema è rendere più facile capire chi le passa ai giornali; oggi questo avviene perché c’è una deresponsabilizzazione, quindi può essere chiunque. Se, invece, si decide che cosa mettere nei fascicoli e che cosa no, e poi si stabilisce una procedura grazie alla quale si individuano delle responsabilità, si può ridurre questa incontrollata e indiscriminata diffusione di notizie che non hanno nessun tipo di rilevanza penale”.

 

 

Il ministro ha letto la lettera del magistrato Guido Salvini pubblicata dal Foglio e, al netto del fatto che considera “più efficace affrontare il tema alla fonte piuttosto che a valle”, concorda con quanto detto dal magistrato (“I brani di una conversazione sono un materiale grezzo e scivoloso dove abbondano ambiguità, millanterie, enfasi, emozioni. approssimazioni”, ha detto Salvini). Inoltre condivide la “linea Falcone” sulla giustizia giusta affrontata dal direttore del Foglio ieri nel suo editoriale. “Oltretutto – dice Orlando – abbiamo promosso un percorso che abbiamo chiamato Stati generali della lotta alla mafia che si terrà nelle prossime settimane. Servirà per rifare il punto sugli strumenti e rompere un po’ di stereotipi accumulati su questo tema e anche un po’ di rendite che si sono create nella lotta alla mafia. Dobbiamo riprendere quello spirito originario di Falcone, è il modo migliore di fare i conti con quello che è la mafia oggi. Non mi ha mai convinto chi sostiene che il sospetto è l’anticamera della verità. Casomai è il dubbio l’anticamera della verità”.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.