Matteo Renzi (foto LaPresse)

Le elezioni in autunno sono la mossa migliore per Renzi ma anche la peggiore

Redazione

Sulla lavagna di Renzi è piena solo la colonna dei “pro”. Ma c'è anche un importante “contro”

Stavolta è tutto vero, non è solo la storia del giorno raccolta dai perditempo del Transatlantico. Il cordone protettivo intorno al governo si sta abbassando, l’accelerazione verso le elezioni anticipate tra settembre e ottobre è reale. Ne prendono atto senza fare drammi a Palazzo Chigi e al Quirinale, consapevoli che se effettivamente la nuova legge elettorale dovesse essere approvata entro giugno non ci sarebbero più motivi, né particolare utilità, a trascinare la legislatura per altri dieci mesi. Perfino la legge di stabilità, tradizionale ostacolo al voto autunnale, potrebbe diventare all’opposto un argomento in suo favore. Non tanto e non solo per la convenienza del Pd, di Renzi e anche di Gentiloni, a evitare di offrire eventuali misure impopolari di fine anno al tritacarne della successiva campagna elettorale, quanto per una valutazione più strategica: se per caso l’Italia decidesse di giocare in maniera dinamica la partita con Bruxelles sul debito, per esempio contrattando uno sforamento temporaneo (e vincolato a riforme) del patto di stabilità, una simile mossa potrebbe tentarla solo un governo legittimato dal voto popolare e con buona maggioranza parlamentare. Sì, insomma, è abbastanza chiaro: una larga coalizione.

 

Sulla lavagna di Renzi è piena solo la colonna dei “pro”. Risparmiarsi le inevitabili tensioni con Padoan su aumenti dell’Iva, Imu sulle case dei ricchi e piacevolezze finanziarie varie. Neutralizzare la campagna a Cinque stelle contro i vitalizi dei parlamentari, facendo saltare l’automatismo del 15 settembre (con il gradito effetto collaterale di punire coram populo perfino il proprio, poco amato, gruppo parlamentare). Associare il proprio test elettorale a quelli europei, per non presentarsi in ritardo a una possibile nuova stagione di leadership e magari di revisione dei trattati. Giocare d’anticipo rispetto alla prevedibile razzia grillina alle elezioni siciliane del 5 novembre. Infine, soprattutto, chiudere dopo neanche un anno il personale ciclo penitenziale apertosi con la sconfitta referendaria.

 

Ma proprio qui, dopo l’ultima riga della colonna dei “pro” renziani, i più accorti e intelligenti dei suoi scrivono a lettere grandi l’unico importante “contro”. E lo stanno recitando ad alta voce, in pubblico e con qualche asprezza in privato. Perché la famosa “narrazione” con la quale ci si avvicina a queste elezioni rischia di essere devastante, una specie di sommatoria di tutti i peccati commessi dal centrosinistra dagli albori della Seconda repubblica: si fa cadere un governo proprio, sulla base di un accordo col centrodestra, per la scrittura di una legge essenzialmente proporzionale. Praticamente, una napoleonica mossa alla D’Alema. Non c’è da stupirsi se davanti a questo triplice scempio Romano Prodi si indigni. Se per una rarissima volta Graziano Delrio decida di esporsi pubblicamente in maniera critica. Se Gentiloni, che pure non si metterà di traverso ad alcuna decisione, dissenta. Ma sono preoccupati anche Richetti, Guerini, Orlando, la parte pensante del cosiddetto gruppo dirigente democratico. Semplicemente perché prevedono quale pessima impressione lascerà questa manovra nel proprio elettorato, prevedibilmente amplificata da Repubblica, dal Corriere, dal Fatto per una volta a reti unificate.

 

Ecco perché, prima di appuntarsi la data delle prossime elezioni, sarà meglio che Renzi trovi il modo di smontare quella narrazione, inventarsene un’altra che porti allo stesso esito senza offendere i valori fondanti e i pochi totem che resistono nel Pd. E’ già abbastanza grave il rischio, questo inevitabile, di volere a tutti i costi le elezioni per poi “non vincerle”: guarda un po’, come Bersani nel 2013, solo con cento deputati in meno di quelli che prese Bersani.

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