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Adesso fate come in Francia

Claudio Cerasa

La certezza della vittoria. La spinta all’innovazione. La nascita di un bipolarismo. Oltre Le Pen e Macron. E’ arrivato il momento di esportare il modello francese e smetterla di parlare per i prossimi 300 giorni della nostra inutile legge elettorale

Fate presto? No, stavolta non fate nulla, per favore. Gli appassionati di politica, domenica sera, seguiranno con emozioni diverse l’una dall’altra i risultati delle elezioni francesi, ma a prescindere da quale sarà il risultato finale del ballottaggio presidenziale (avete capito qui per quale cammino tifiamo) un minuto prima della chiusura dei seggi sarà inevitabile fermarsi un attimo e ragionare su un tema che prescinde dai contenuti (i programmi di Macron e di Le Pen) e che riguarda quel contenitore che permetterà agli elettori francesi di scegliere con chiarezza quale sarà il presidente per i prossimi cinque anni: il doppio turno e l’elezione diretta del capo dello stato.

 

Da lunedì la Francia, anche grazie al doppio turno e al suo sistema istituzionale (Dio lo benedica), sarà divisa più o meno a metà e per quanto gli sconfitti possano essere disperati per la vittoria dell’avversario difficilmente troverete qualcuno che dopo aver perso le elezioni (al primo, o al secondo turno) chiederà al Parlamento e al nuovo presidente di cambiare il sistema. Comunque vada il modello funziona e comunque vada a finire il ballottaggio basterà un voto in più alle presidenziali e un seggio in più in Parlamento per governare il paese. Fantastico. Le grandi coalizioni che oggi vediamo nascere in Italia (e non solo) tra i partiti esistono anche in Francia, certo, ma esistono tra gli elettori e non tra i parlamentari e non si tratta di un particolare da poco.

 

Lo abbiamo visto chiaramente in questi giorni di campagna elettorale: con un sistema che responsabilizza gli elettori, alla fine gli elettori tendono a votare spinti non solo dall’interesse personale (cosa ci guadagno io se vince Tizio) ma spinti anche all’interesse del paese (cosa ci guadagna il mio paese se vince Tizio); e i partiti, sapendo che ci sarà un vincitore e molti sconfitti (non come in Italia molti vincitori e pochi sconfitti), tendono a non nascondere i propri problemi (e i propri errori) sotto il tappeto della politica e tendono a essere spinti a rinnovare continuamente se stessi. Un sistema che permette a qualcuno di vincere produce innovazione, un sistema che permette a tutti di non vincere produce conservazione.

 

Che c’entra tutto questo con l’Italia? C’entra perché a prescindere da quello che sarà il risultato di domenica sera la classe politica del nostro paese ha un’occasione straordinaria, oggi, per responsabilizzare i propri elettori, stimolare la competizione e regalare un sogno e una prospettiva: scommettere, da subito, sull’introduzione integrale del modello francese (firmando un patto per la modifica del sistema prima delle elezioni) e trasformando così le elezioni presidenziali non in un’utopia ma in un mondo possibile. Chi vince, vince. Chi non vince, non vince. E chi vince lo decidono gli elettori alla luce del sole, non i parlamentari nel buio delle trattative di palazzo. Per fare questo, naturalmente, ci vuole tempo e ci vuole coraggio. Coraggio sia da parte del centrodestra (che essendo un’accozzaglia oggi ha più interesse a investire sul modello della frammentazione che su quello della competizione), sia da parte del centrosinistra (che dopo la rilegittimazione del suo leader alle primarie dovrebbe avere la forza di elaborare il lutto del 4 dicembre e rilanciare un progetto ambizioso per provare a cambiare il paese). Per fare questo occorre tempo (e i cinque anni della prossima legislatura possono bastare) ma occorre anche una consapevolezza chiara, cruciale. Le grandi coalizioni tra partiti (non tra elettori) hanno aiutato diversi paesi (e anche l’Italia) a risolvere molti problemi, in questi anni, e hanno avuto, se ci si pensa bene, anche una funzione culturale importante: le differenze tra i grandi partiti, sulle cose che contano, si sono livellate su molti temi e basti osservare cosa diceva cinque anni fa la sinistra sulla giustizia, sul mercato del lavoro e sulla globalizzazione per capire come le Grosse Koalition costringano tutti a fare i conti con i propri difetti e i propri tabù irrisolti. Ma il modello delle grandi coalizioni – particolare importante – non può essere un modello eterno. Deve essere un modello transitorio. Deve essere come una safety car. E deve essere un modello finalizzato non ad arginare il populismo (modello italiano) ma finalizzato a sfidarlo fino in fondo, per mostrare la differenza che esiste tra la politica della responsabilità (che governa) e quella dell’irresponsabilità (che fa caciara).

 

Serve questo (in Germania ci sono riusciti) ma serve anche altro, serve un passaggio in più che ci permettiamo di suggerire.

 

Mancano circa trecento giorni alla fine della legislatura. Quasi dieci mesi. Forse qualcosa di più. Sappiamo tutti che qualsiasi legge elettorale verrà fatta in questo Parlamento sarà una legge al ribasso, minimalista, pasticciata, senza prospettiva. Passare i prossimi trecento giorni a parlare inutilmente di legge elettorale è una sciocchezza senza precedenti che costringerà questo governo a occuparsi più dei problemi virtuali (le soglie di sbarramento) che dei problemi reali (la crescita, la concorrenza, la produttività, la pressione fiscale). Sappiamo che da questo governo, visti i complicati equilibri che esistono nella maggioranza (e nel Pd), non ci si può aspettare troppo, almeno su questo tema. Ma forse una cosa è lecito chiederla e questo esecutivo potrebbe avere le caratteristiche giuste per portarla avanti: non fate nulla, non fate nessuna legge elettorale, lasciate che sia il prossimo Parlamento, che non potrà che essere (scusate la parola) costituente, a occuparsene una volta e per sempre. E poi stop.

 

Insomma. Fate come in Francia. Facciamo come in Francia. E per fare come in Francia, per una volta, non fate nulla e provate a trasformare il modello francese non in un’utopia ma nell’unico sogno possibile per salvare l’Italia dalle sabbie mobili dell’immobilismo e dalle chiacchiere sulle soglie di sbarramento. Si può fare. E almeno in questo, viva la Francia.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.