Foto LaPresse/Piero Cruciatti

Nuove coordinate in Europa

David Allegranti

Riflessi francesi sulle primarie del Pd. Cose da ricordare prima di dire che Renzi è En Marche!

Roma. Il ballottaggio fra Marine Le Pen ed Emmanuel Macron ha dato prevedibilmente fiato agli imitatori italiani, che non vedevano l’ora di potersi buttare sulle elezioni presidenziali francesi per i propri scopi interni. Tra questi c’è Matteo Salvini che grida “Forza Le Pen!”, ma anche Matteo Renzi, che dalla sconfitta del 4 dicembre 2016 cerca un modo per riacquistare la perduta centralità politica.

 

Le primarie di domenica prossima, quando Renzi tornerà a essere il segretario del Pd, non sono evidentemente sufficienti a ripristinare l’entusiasmo che ha caratterizzato la vorticosa ascesa dell’ex sindaco di Firenze, che ormai ha già sparato la pallottola dell’outsider. Renzi, come dimostrano i numeri dei suoi sostenitori descritti da “Questioni primarie”, un osservatorio sulle primarie, è saldamente alla guida della “Ditta”, come la chiamava Bersani: il 95 per cento dei segretari regionali del Pd lo sostiene, così come il 66 per cento dei parlamentari e la metà dei sindaci delle città capoluogo governate dal Pd. Mentre Macron ha scelto di non partecipare alle primarie del Partito socialista francese, Renzi ha convocato un congresso anticipato che culminerà nei gazebo del 30 aprile. “Considero le primarie un’aberrazione, un esercizio contrario alla Quinta Repubblica, una macchina infernale che uccide le idee e impedisce di governare”, ha detto recentemente Macron. Arturo Parisi invece le definì “il mito fondativo dell’Ulivo”, un mito che poi ha dato vita al Pd. Renzi deve la sua ascesa a molti fattori, comprese le primarie che nel 2009 gli consentirono a Firenze di sbaragliare il gruppo dirigente che governava la città. Macron non ha un partito dietro di sé, ma un movimento, En Marche!, fondato nell’aprile del 2016, e che Renzi ha ripreso per la sua campagna elettorale delle primarie con “In Cammino”; una mossa, quella di Macron, in linea con lo slogan “né destra, né sinistra”, che l’aspirante presidente della Repubblica francese propugna. Non avere un partito, specie per come è combinato il sistema istituzionale francese, potrebbe però essere un problema, e forse lo vedremo alle elezioni legislative di giugno (sempre che il ballottaggio non riservi sorprese). Renzi invece un partito ce l’ha. Se lo è preso ed è ciò che gli ha consentito di diventare presidente del Consiglio, congedando il predecessore Enrico Letta. L’idea di fare una lista civica con il suo nome (o magari con le sue iniziali come Macron con il suo movimento, EM) poteva nascere a Firenze in caso di sconfitta alle primarie amministrative. Ma Renzi ha sempre scelto di restare in un partito, rivendicandone i meccanismi di selezione, compresi quelli che gli hanno consentito di arrivare a Palazzo Chigi. Dalla cooptazione in provincia allo scontro “a viso aperto” con Bersani e D’Alema.

 

C’è poi una questione imprescindibile, e riguarda il rapporto con l’Europa. Mentre in Italia a fine novembre c’era chi (Renzi, naturalmente) toglieva le bandiere dell’Europa e metteva dietro le spalle, in diretta tv, un tripudio di bandiere italiane, ricevendo pure i complimenti di Florian Philippot, vicepresidente del Front national (“Vorremmo che anche in Francia l’illegittima bandiera blu e gialla sparisse. A beneficio della nostra unica e sola bandiera”), mentre Bruxelles negli ultimi anni veniva descritta come la capitale di un’Europa matrigna, Macron ne faceva l’architrave del proprio programma politico, sfidando la Le Pen che invece ha investito sulle paure del popolo francese e si è unita a chi, da fuori, vorrebbe disgregare l’Unione europea, da Donald Trump a Vladimir Putin.

 

La differenza la fanno le parole, che sono nannimorettianamente importanti. Ieri Renzi ha ricordato che chiuderà venerdì la sua campagna per le primarie a Bruxelles. “Chi ama l’ideale europeista sa che gli avversari sono i populismi. Ma sa anche che l’Europa è un bene troppo grande per essere lasciato ai soli tecnocrati”. Ora, “tecnocrati” è una parola che piace molto ad Alessandro Di Battista, che il 27 novembre 2016 descriveva così l’Ue: “Questa è quell’Europa che hanno costruito loro, è una Europa dei tecnocrati”.

 

Se le parole hanno un peso, e ce l’hanno, sarà interessante ascoltare il discorso di Renzi a Bruxelles. Nel 2012 l’allora candidato alla presidenza del Consiglio chiuse la campagna elettorale contro Pier Luigi Bersani a Siena. Erano altri tempi, e Siena rappresentava, per via di Mps, “il rapporto sbagliato tra sinistra e finanza”. Dopo quel discorso, peraltro un po’ addolcito rispetto alle aspettative, Renzi non parlò più seriamente di Siena né di Mps. Adesso vola nella capitale dell’Europa politica, che rappresenta – per parafrasare l’ex sindaco fiorentino – il rapporto sbagliato fra le istituzioni e la gente. “Abbiamo molti temi su cui farci sentire”, dice Renzi. “L’elezione diretta del presidente della commissione, il cambio di paradigma della politica economica, l’Europa sociale, un piano per le periferie, la difesa comune…”. Il tecnocrate Macron ne sarà sicuramente molto lieto.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.