Carlo Calenda e Matteo Renzi (foto LaPresse)

Renzi e Calenda: fantasie e rancori tra potere e psicopatologia politica

Salvatore Merlo

La rivalità rimanda al duello che fu tra Berlusconi e Tremonti, ma questa volta forse la politica non c’entra tanto

Roma. “C’è un limite alla faccia di bronzo, il problema è solo questo. Calenda non è un avversario”, ci dice adesso uno degli uomini più vicini a Matteo Renzi quando gli si chiede di Carlo Calenda, il ministro dello Sviluppo il cui nome da tempo rimbalza seccamente sui più aggiornati pavimenti italici come una pallina da ping pong sfuggita ai giocatori, tanto che le sue vere o presunte ambizioni da antagonista di Renzi, quasi da arcinemico (come nelle storie a fumetti), alimentano fantasie nei corridoi di palazzo. Ed è infatti tutto un pissi pissi tra i parlamentari del Pd che si gonfia d’autorevoli analisi sui principali quotidiani, e diventa anche materia ghiotta per i retroscena, cioè quel genere indispensabile e labirintico del giornalismo, inevitabilmente cosparso di specchi deformanti e trabocchetti dello spin nei quali persino l’autore rischia di cadere a ogni passo. Tutto un genere di letteratura e di cronaca che negli ultimi mesi, da quando cioè Calenda è evidentemente caduto in disgrazia presso la corte renziana, ha attribuito al bravo ministro – e con monotona, indifferente pendolarità – rapporti speciali e ambizioni triangolate con tutti gli avversari e nemici di Renzi, da Pier Luigi Bersani a Silvio Berlusconi.

 

Ma se l’immagine della rivalità tra Renzi e Calenda, ovvero tra un carismatico capo partito e un ministro economico di buone letture, ci fa immediatamente avvertire il confuso risveglio di un’associazione, di un ricordo, rimanda cioè all’eterno duello che fu tra Berlusconi e Giulio Tremonti – ovvero tra l’impresario politico e il tecnico d’economia di cui si diceva di tutto: animatore di un polo laico e socialista, fondatore di un “vero partito del nord”, sindaco di Milano, successore di Umberto Bossi, leader alternativo di un centrodestra deberlusconizzato… – se insomma questa vicenda di amori oscuri e delusi ricorda, nel complesso delle oblique staffilate che i protagonisti si scambiano nell’ombra e attraverso le colonne dei giornali, la passata mitografia della Tremonteide, tuttavia la moderna Calendeide sembra invece aver poco a che fare con il potere e con la politica – che erano poi il fondamento del conflitto a bassa tensione tra Berlusconi e Tremonti – per tracimare piuttosto nella psicopatologia politica, in quell’ambito complesso e inafferrabile, non sempre razionale (ma non per questo trascurabile), dei piccoli rancori, e dei rapporti personali deteriorati tra consanguinei.

 

E si sa, infatti, che se Renzi prende qualcosa, o qualcuno, nel filo della sua antipatia non lo molla finché non ne assiste alla fine, e solo allora – come testimoniano Matteo Richetti, Giorgio Gori e Giuliano Da Empoli – forse perdona, recupera: la mano, autoritaria seppur delicata, li designa, traendoli dallo stato di oggetti posati, dal caos di un’attesa indistinta. “Renzi fece Calenda ambasciatore e poi addirittura ministro, e lui, per tutta riconoscenza, nel 2016 cominciò a dire, riportato anche dai giornali, che Luca Lotti era un ‘ragazzino’”, ricordano allora i renziani, con memoria impermalita. Poi: “Quando ha visto che tirava un vento diverso nel paese, Calenda ha cominciato, con aria terzista, a criticare la politica dei ‘bonus’, come se lui non avesse partecipato”. E ancora: “Dopo la sconfitta al referendum, quando Renzi personificava la potenza disfatta, Calenda ha cominciato a dare interviste da ‘statista’, critico con quelli che lo hanno portato dov’è adesso”. E infine: “Ora si dà arie da tecnico e arriva a dire ad Antonio Polito l’enormità che ‘alle prossime elezioni si confronteranno tre poli populisti’. Ma vi rendete conto?”. E infatti dicono che Renzi pensi a Calenda con l’espressione di chi ha dei peli dentro la bocca e non riesce a scacciarli. E allora, i suoi, i renziani, quando i giornalisti chiedono, attribuiscono al ministro dello Sviluppo ogni genere di mire, di legami, di amicizie e di trame che quello probabilmente nemmeno sogna di avere: Berlusconi, Bersani… Ed è infatti innegabile che la Calendeide sia alimentata se non proprio da Renzi in persona, almeno dal suo entourage, da quel gioco inebriante di suggestioni e veline, umori e malumori personali, di cui sempre si gonfia il circo mediatico. Il paradosso è che, in questa confusione anche semantica tra critica e tradimento, a furia di raccontarlo come un pericoloso alter ego, un antagonista da vicenda classica, Calenda potrebbe finire col diventarlo sul serio. E’ un vecchio adagio della sociologia scientifica, come recita il famoso teorema di Thomas, “se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze”.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.