Stefano Balassone. Foto LaPresse/Renato Franceschin

Il critico critica il "giornalismo da faldone". Scatta il "marcobavaglio"

Tommaso Alberini

Il blog di Stefano Balassone sul Fatto quotidiano è morto

Roma. Qualche settimana fa, scrivendo la sua newsletter, Stefano Balassone vi inserì come di consueto vari link ad articoli da lui pubblicati, tra cui uno sul sito del Fatto Quotidiano. Gli iscritti alla sua newsletter, dopo aver cliccato varie volte, devono aver pensato che si trattasse di un errore: il link al suo blog sul Fatto “Sciò Business”, dove commenta fatti e misfatti della politica televisiva nostrana, era difettoso, non si apriva sulla pagina designata. Il link funzionava, invece, ma il post nuovo non c’era. Non era mai stato pubblicato. Il direttore del giornale, Peter Gomez, aveva ritenuto che il contenuto non fosse compatibile con la linea editoriale della testata. Aveva contattato Balassone e, “cortesemente ma fermamente”, lo aveva informato che non era d’accordo sul ragionamento espresso.

 

L’ultimo post di Balassone sul sito del Fatto Quotidiano, quindi, risale al 7 aprile e tratta della “cortese presentazione al soglio organizzata a Otto e Mezzo per Davide Casaleggio”. Non ce ne sono e non ce ne saranno altri. Il cordone ombelicale è stato tagliato – da Balassone stesso, sia chiaro: “A quel punto non c’erano più le condizioni” per collaborare. Il post incriminato, fortunatamente, non è stato trascinato sull’icona del cestino: è un post di spessore, scritto bene, con quello stile erudito che contraddistingue Balassone sin da quando lavorava a fianco di Angelo Guglielmi nell’impresa di fare di Rai3 una televisione moderna, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Francesco Cundari ne ha apprezzato il sapore di anticastismo intelligente, cioè beffardo nei confronti della casta che gioca a fare l’anticasta (ne ha scritto su queste pagine qualche settimana fa) e lo ha pubblicato sul giornale online da lui diretto, Left Wing. S’intitola “Patti col Diavolo (mediatico)”, il post che è costato il divorzio editoriale al Fatto, e tratta della manipolazione delle intercettazoni di Renzi senior nell’inchiesta Consip – passi, d’accordo – e di come questo sia solo uno dei tanti esempi di “un sistema mediatico indotto dai suoi stessi bilanci ad affidarsi al contributo massiccio dei diretti mediatori tra furbacchioni di potere e pubblico” – e dev’essere scattato qui, l’altolà di Gomez – cioè “i reporter da faldone, gli inviati d’archivio”. Chiosa davvero indigesta da mandar giù.

 

Parlando col Foglio, Balassone minimizza: “Penso sia qualcosa che avviene in tutti i giornali, che il direttore faccia una cernita dei contenuti” da pubblicare, e sottolinea che col Fatto “ci siamo lasciati in maniera molto pacifica”. Sarà. Però pare proprio un “marcobavaglio”, questo. Un tentativo di censurare, con la coda di paglia tra le gambe, la critica a uno stile giornalistico tipico proprio della testata che avrebbe dovuto ospitare il post (senza intenzioni specifiche dell’autore: nel testo di Travaglio non si parla). Balassone accusa i media italiani di non discernere a sufficienza, quando frugano negli archivi dei tribunali, tra verità e apparenze, tra sentenze e avvisi di garanzia, tra intercettazioni sospette e “prove provate”. Posto che anche la magistratura può sbagliare – quando di errore si tratta – il “giornalismo da faldone”, come lo chiama Balassone, spesso rischia di trasformarsi in un “copia e incolla da burattini” delle carte delle Procure, convenientemente e sistematicamente infilate sotto le porte delle redazioni. “La pulsione di portare a casa la cacciagione” prevarica l’analisi del contesto, la valutazione, tutta soggettiva, se valga o no la pena di buttare in pasto al fuoco delle penne incendiarie persone innocenti, o presunte tali fino a giudizio. Eppure, diciamo a Balassone, sui blog del Fatto si esprimono voci disparate, persino gente del Pd. “Questa era un po’ troppo disparata”, evidentemente.

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