Matteo Salvini e Umberto Bossi (foto LaPresse)

Che idea ha Bossi sul congresso leghista

Salvatore Merlo

“Conta il progetto. Ma siamo ancora la Lega nord?”, si chiede l’Umberto

Roma. Matteo Salvini ha indetto il congresso della Lega, il 21 maggio. “Si vede che ha fatto bene i suoi conti”. Si vede che è strasicuro di vincere. “Ma le conte sono sempre pericolose”, dice allora Umberto Bossi, che è ancora una bestia imponente, malgrado gli acciacchi, una bandiera sentimentale capace di suscitare l’emozione dei militanti alle feste di provincia, di accelerare il metabolismo sul palco di Bergamo e di Varese, nelle famose “valli” e sul pratone di Pontida. “Mi piacerebbe si candidasse il segretario della Lega lombarda, Paolo Grimoldi. Uno che non vuole stravolgere la storia della Lega. Lui non trasformerebbe il partito del nord in un partito nazionale”. Ma Grimoldi non sembra intenzionato a candidarsi. Almeno per ora. Tira invece l’aria di una lunga campagna elettorale per le politiche, e Salvini vuole presentarsi alle elezioni legittimato. 

 

Così Salvini vuole presentarsi saldo alla guida di un partito che pure, qui e là, gli sfugge di mano, tra dissidenze, piccole epurazioni, litigi di potere con Roberto Maroni, e tessere che tra i militanti più monelli, cioè tra quelli non precisamente allineati, talvolta non vengono riconfermate malgrado il pagamento della quota, come raccontano molti ex dipendenti della Lega, militanti storici di Via Bellerio, alcuni di quei collaboratori storici del partito allontanati e messi in cassa integrazione proprio da Salvini. A questo serve il congresso. E’ utile a rinsaldare una leadership, a completare la presa del potere, e in maniera forse la meno cruenta possibile. “Ma il congresso è una cosa seria solo se si discute un progetto”, dice l’Umberto, che parla con la libertà di quello che non ha nulla da perdere, che non teme di non essere ricandidato, che se ne impipa, e dunque non pettina i suoi pensieri come invece fanno in genere gli altri deputati e senatori (e spesso per questo è anche maltrattato dal partito cui pure ha dato i natali). “Il progetto è più importante di chi fa il segretario”, dice allora Bossi, in un soffio gutturale. “Lega nazionale o Lega nord? Cosa stiamo diventando? Chi siamo?”. Bella domanda.

 

Ieri, al termine del Consiglio federale, a Milano, subito dopo l’annuncio che il congresso troppo a lungo rinviato finalmente si farà, Salvini ha afferrato la mano di Bossi, platealmente. E la stretta fugace è stata subito raccontata ai giornalisti, diventando titolo delle agenzie; non soltanto colore ma fatto politico, quasi una benedizione. Ma lo era davvero, una benedizione? “Tu che dici?”, risponde il vecchio capo, con ironia. Forse non lo era. Certo è che, ieri, di fronte allo stato maggiore del partito, Salvini ha fatto esercizio ecumenico, ha detto che non sarà toccato lo statuto, che insomma la Lega rimane la Lega, Lega Nord come recita l’articolo 1: “‘La Lega Nord per l’Indipendenza della Padania’ ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania”. Ma subito dopo, rimasto solo, Salvini si è abbandonato a una serie di confessioni private con parlamentari e giornalisti amici. Il giro delle telefonate si è fatto intenso. Le intenzioni di Salvini sono state così messe in circolo, hanno alimentato il pissi pissi nel Palazzo e nei siti del cosmo leghista, un po’ anche per misurarne gli effetti sul pubblico dei militanti. Con la smentita pronta, in caso di problemi. “Alle amministrative, in autunno, ci candidiamo in Sicilia, per la regione, e a Palermo, per il comune”, ha dunque ricordato Salvini, a chi chiedeva.

 

E insomma le finalità del partito, l’indipendenza della Padania, il nativismo settentrionale, “è roba che abbiamo già superato”, ha detto il segretario, “io penso che al sud non vedano l’ora di avere lo stesso modello di buon governo che ha il nord”. Ma cancellare la parola Padania dallo statuto è una di quelle azioni gravi e pericolose che forse nemmeno lui, con tutta la baldanza e l’energia che pure possiede, ha il coraggio d’intraprendere. Anche se ieri Salvini non escludeva nulla, in realtà. Essere capo di una Lega nazionale rende infatti più semplice la vaghezza di proporsi anche come capo di tutto il centrodestra, al posto di Silvio Berlusconi, o di qualsiasi altro candidato premier di coalizione. “Ma noi ci chiamiamo Lega Nord”, ripete Bossi, impegnato a condurre una battaglia forse già persa, e con l’aria della reliquia ingombrante, ancora dotata di parola e di memoria, l’unico parlamentare rimasto nella Lega a criticare apertamente il ragazzo leader, “il leoncino nello zoo”, quello che “rischia di perdersi un sacco di voti al nord solo per raccattare quattro gatti al sud”.

 

Ed è vero che Roberto Maroni quando pronuncia in privato il nome di Salvini quasi lo mastica, tanto da spingersi a dire a Giorgio Gandola che “Salvini è un leader politico, però non sa governare. Luca Zaia invece è meglio”. Ed è vero che mentre il giovane segretario pencola e si atteggia a Lepen italiano, Maroni e Zaia invece guardano allo schema classico del centrodestra ventennale. Ma Zaia governa il Veneto, e Maroni la Lombardia, ogni tanto borbottano, ma stanno bene dove sono, proprio come Roberto Calderoli (che ambisce alla poltrona di presidente, la carica di Bossi) e come Giancarlo Giorgetti (che fa il vicesegretario, e l’architetto di retrovia). Finché Salvini raccoglie voti, i colonnelli non vogliono – e non fanno – problemi. Allora il congresso è per loro poco più di una formalità pre-elettorale. Che li riguarda, sì. Ma anche no. Solo il vecchio Bossi allora scuote la testa, non si lascia la guerra alle spalle, e rifiuta di muoversi nella penombra di placide omertà.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.