Marco Minniti (foto LaPresse)

Nuove leadership della nazione

Claudio Cerasa

Il partito della nazione si è infranto contro la diga del referendum ma i leader trasversali continuano a moltiplicarsi e possono avere un futuro nell’Italia in cerca di alternative al cabaret. Cosa ci dicono le storie di Calenda e Minniti

E se le primarie più interessanti non fossero quelle nel Pd ma quelle interne al governo? Per carità: la corsa tra Matteo Renzi, Andrea Orlando e Michele Emiliano presenta tratti suggestivi (anche se il grillometro, il misuratore automatico di grillismo, rischia di esplodere a ogni ora della giornata) e promette di essere meno scontata rispetto a quello che appare oggi (non è detto che il consenso di Michele Emiliano sia destinato a essere quello registrato in questi giorni nei circoli, tra il 3 e il 4 per cento, potrebbe anche essere persino il doppio, chi lo sa). Ma nelle stesse ore in cui l’ex presidente del Consiglio, l’attuale ministro della Giustizia e il governatore pugliese cercheranno di dimostrare che il Pd può sopravvivere senza problemi alla micro scissione del partito (con simpatia, sull’Espresso, Pippo Civati ha detto che la sinistra fa bene a osteggiare il modello Macron ma deve stare attenta ora a non farsi travolgere dal modello Micron) c’è un’altra partita interessante, da seguire con attenzione, che riguarda la trasformazione del governo Gentiloni in una passerella sulla quale hanno cominciato a sfilare alcuni alternativi modelli di leadership – che in vista della prossima legislatura potrebbero avere un ruolo complementare a quello che avrà il futuro leader del Partito democratico. I due modelli di leadership da seguire – Paolo Gentiloni a parte – sono incarnati nelle figure di Carlo Calenda (ministro dello Sviluppo, 43 anni) e Marco Minniti (ministro dell’Interno, 60 anni), che in occasioni diverse hanno avuto la possibilità di mettere in campo visioni del paese non politicamente corrette, non convenzionali ed esplicitamente anti demagogiche.

  

 

Marco Minniti, oltre ad aver alzato un impeccabile muro contro i violenti che sabato avrebbero voluto trasformare in un delirio la celebrazione dei Trattati di Roma, è impegnato da mesi a dimostrare una serie di concetti importanti. Primo: la parola sicurezza è una parola di sinistra, e su questo punto il Lingotto di Renzi gli ha riservato un’ovazione. Secondo: una classe politica seria deve difendere le sue forze di polizia anche dagli schizzi di fango, e non è un caso che il giorno dopo la neutralizzazione del terrorista più ricercato d’Europa, Amri, autore della strage di Berlino, Minniti si è presentato in conferenza stampa con a fianco Tullio Del Sette, comandante dei carabinieri indagato dalla procura di Napoli per favoreggiamento e rivelazione del segreto d’ufficio. Terzo: i problemi legati all’immigrazione si risolvono non nascondendo i problemi ma andando alla radice dei problemi (è sempre di Minniti la proposta di aumentare il numero dei Cie in Italia, e speriamo che la proposta non faccia la stessa fine dei voucher). Quarto: il traffico di migranti non si conterrà se la politica sarà impegnata solo a incentivare le partenze (modello Mare Nostrum) e non comincerà invece a sporcarsi le mani sulle coste libiche (a maggio potrebbe iniziare una nuova cooperazione tra forze dell’ordine italiane e libiche e per quella data potrebbero essere pronti i primi campi d’accoglienza).

 

La linea di Minniti è tosta, è dura, è trasversale, è riformista, è spigolosa come il suo volto, ma è una linea destinata ad avere un futuro, forse anche oltre questo governo. Dall’altra parte, invece, non sappiamo se Calenda, come ha scritto ieri Repubblica, sia stato davvero individuato da Silvio Berlusconi come possibile federatore del centrodestra del futuro, come lo sono stati nel passato Casini, Fini, Alfano, Tremonti, Scelli, Bertolaso, Brambilla, Samorì, Fiori, Martinelli, Del Debbio e Parisi.

 

Sappiamo però che insieme a Minniti è lui uno degli azionisti forti di questo governo della nazione. Pur non essendo ancora riuscito a fare quello che ci si aspetta da un ministro dello Sviluppo in un paese bloccato come l’Italia, ovvero approvare una legge sulla concorrenza, Calenda ha tentato di ricavarsi uno spazio pubblico importante puntando su un concetto complicato da maneggiare in una fase storica come la nostra caratterizzata da un’egemonia culturale a trazione populista e sovranista: l’elogio della globalizzazione. Sia durante il governo Renzi, sostenendo il trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico (Ttip) e promuovendo il progetto industria 4.0, sia durante il governo Gentiloni, opponendosi al tentativo di scaricare sull’Europa i problemi dell’Italia e arrivando persino a difendere la direttiva Bolkestein, il ministro dello Sviluppo ha scelto di iscriversi con decisione al partito dell’apertura, spendendo energie per combattere contro il pensiero unico grillino, neo protezionista e un filo cialtrone che in questo momento trova nella promozione del reddito di cittadinanza la sua bandiera di appartenenza: “Non ci si può inventare redditi che non siano quelli che derivano dal lavoro. La politica deve creare le condizioni per cui le imprese creano lavoro. Siamo una Repubblica fondata sul lavoro, non sul reddito”. In pochi mesi, insomma, Minniti e Calenda, elogiati o quantomeno non osteggiati anche dagli avversari del Pd, sono diventati un modello di governance politica bipartisan, dimostrando in qualche modo che in Italia esiste una nuova, ambiziosa e autorevole classe dirigente, sbocciata anche nel Renziland, che in modo autonomo sta provando a fare quello che non è riuscito al Pd renziano.

 

Il progetto del partito della nazione si è infranto contro la diga del referendum costituzionale, ma l’idea che nell’epoca dei populismi irresponsabili la politica responsabile sia costretta a concentrarsi sul merito delle policy, senza pensare se quelle policy siano di destra o di sinistra, sta diventando il vero spartiacque tra chi usa la politica come un’alternativa al cabaret e chi invece usa la politica come possibile strumento per migliorare un paese. I risultati di questa azione si vedranno. Ma per come è fatta l’Italia, in un’epoca in cui si è scelto in modo scellerato di combattere i populismi sfiancandoli con il proporzionale e non sfidandoli con il maggioritario, i nuovi azionisti del governo della nazione e della mediazione (Gentiloni in primis) saranno destinati ad avere un peso di rilievo, soprattutto se il risultato delle prossime elezioni renderà inevitabile l’alleanza tra centrodestra e centrosinistra. Per cui, sì: il congresso del Pd servirà a eleggere il prossimo segretario del Pd, ma per capire chi potrebbe essere il prossimo presidente del Consiglio più che alle primarie di partito forse converrà dare un’occhiata anche alle primarie di governo. Lo sa Sergio Mattarella e forse lo sa anche Matteo Renzi.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.