Luigi Zingales (foto LaPresse)

Il grillin Zingales

Stefano Cingolani

Un romanzetto di fantapolitica per capire slanci e contraddizioni dell’economista indicato come futuro ministro del governo Di Maio

Il decreto era già pronto da giorni e approvato in gran segreto dal governo, ma il ministro del Tesoro (niente più Economia perché l’economia la fa il mercato che diamine) aspettò fino a domenica sera, come è tradizione per i grandi eventi che cambiano il corso della storia. Alle 18 in punto, in tempo per far digerire la polpetta prima che aprissero le borse dall’altra parte del mondo, Berlino aveva inviato alle agenzie di stampa il suo comunicato con il quale annunciava che la Germania abbandonava l’euro per adottare una moneta chiamata Nuovo Euro a un tasso di cambio leggermente superiore alla parità con la precedente valuta unica, un segnale di solidità e di fiducia. Pochi minuti dopo, dalla scrivania che fu di Quintino Sella, il ministro Luigi Zingales licenziava il foglietto che sarebbe andato a tutti i mezzi d’informazione: l’Italia si riprendeva la propria sovranità cominciando a stampare l’Eurolira con un valore nominale inferiore del 30 per cento al vecchio euro. A garanzia, Roma offriva l’oro accumulato nei decenni dalla Banca d’Italia e le immense proprietà pubbliche immobiliari (terre e palazzi) e mobiliari (le quote delle aziende a partecipazione statale e delle banche salvate nel frattempo). Naturalmente, tutti sapevano che non poteva bastare a rassicurare i mercati. Infatti, il decreto valutario era accompagnato da un’altra misura destinata a ripercussioni forti.

 

Il ministro aspettò domenica
per l’annuncio: l’Italia passava all’eurolira
con valore inferiore
del 30 per cento
al vecchio euro

Nel 2010 Zingales aveva suscitato polemiche con un articolo nel quale auspicava la nascita di un euro del sud svalutato rispetto all’euro del nord: “L’unica soluzione rimasta è riconoscere le differenze insanabili e spezzare consensualmente l’area euro… Una separazione pilotata e rapida sarebbe il male minore. Creando due blocchi, ridurrebbe lo stigma su ogni singolo paese e consentirebbe al sud di continuare a detenere una valuta liquida. La svalutazione dell’euro-sud rispetto all’euro-nord ridurrebbe il peso del debito pubblico e privato e permetterebbe un recupero di competitività che rilancerebbe l’economia. Eliminata l’incertezza gli investimenti riprenderebbero”. Adesso era il momento di passare dalla teoria alla prassi.

 

Come studioso, si era dedicato ai mercati finanziari, ma come intellettuale e come ministro non poteva non fare ricorso alla storia. Il suo braccio destro, un economista che aveva svelato le manovre di Mario Monti per tenere l’Italia nella prigione dell’euro, scartabellando gli archivi, aveva passato in rassegna la prima e più lunga esperienza penosa per la lira del Regno d’Italia quando nel 1866 a causa dei debiti accumulati e della speculazione da parte delle grandi banche inglesi e francesi, fu deciso il corso forzoso, cioè l’inconvertibilità della lira in oro (allora vigeva il gold standard). Il ritorno sul mercato e il rientro dall’inflazione provocata dalla moneta emessa senza vincoli esterni, avvenne solo nel 1883 con la Sinistra storica (prima Agostino Depretis poi Francesco Crispi). Mentre il cambio degli schieramenti internazionali con la Triplice Alleanza coincideva con una più forte presenza delle banche tedesche che in parte presero il posto di quelle inglesi e francesi.

 

Ricordando i suoi studi bocconiani, il ministro aveva chiesto consiglio agli storici dell’economia. Qualcuno, influenzato dalla dottrina Varoufakis, era convinto che la chiave di tutto fosse la ridenominazione del debito con una moneta svalutata. Lo stesso Zingales nel 2010, auspicando un “divorzio consensuale tra nord e sud dell’area euro, aveva scritto: “Di fronte ai costi economici e sociali prodotti dalla Grande Depressione, gli Stati Uniti abbandonarono la parità aurea e trasformarono tutti i contratti scritti in dollari-oro in contratti in dollari carta svalutati. Perché gli stati del sud Europa non dovrebbero abbandonare la parità con l’euro e trasformare i contratti scritti in euro in contratti in uno svalutato euro-sud?”.

 

 

Ma la storia nasconde sempre sorprese. E alcuni colleghi esperti della Repubblica di Weimar gli avevano ricordato che il problema dell’Italia era il debito pubblico; la situazione, quindi, assomigliava più alla Germania degli anni Venti costretta a ripagare debiti di guerra punitivi. Fu Hjalmar Schacht, nominato nel novembre 1923 commissario straordinario e poi governatore della Reichsbank (con i nazisti sarebbe diventato anche ministro delle Finanze), a stroncare in pochi mesi la iperinflazione grazie a una moneta nuova di zecca, il Rentenmark, pari a mille miliardi del vecchio marco, accompagnata da una cura da cavallo: più tasse, meno spesa pubblica, pareggio del bilancio. Senza l’impegno a non stampare più moneta per colmare il deficit pubblico, il Rentenmark sarebbe diventato anche lui carta straccia. Zingales era troppo sofisticato per non accettare la lezione della storia: il nome (la nuova moneta) doveva rispondere alla cosa (una economia risanata) e ciò era possibile solo con una finanza pubblica equilibrata in tempi normali, usando il deficit come arma temporanea contro la recessione (in linea insomma con quel che aveva sostenuto John Maynard Keynes, quello vero, non quello dei tardo-keynesiani). Ma chi lo diceva al governo presieduto da Luigi Di Maio?

 

“Perché gli stati del sud Europa non dovrebbero trasformare i contratti scritti in euro
in contratti
in uno svalutato
euro-sud?”

Consapevole delle difficoltà, Zingales aveva presentato un secondo decreto che prevedeva tre misure: azzeramento progressivo del disavanzo pubblico, aumento delle tasse con introduzione di una patrimoniale ad ampio spettro (la sinistra del Movimento aveva imposto aliquote proporzionali), un taglio orizzontale della spesa pubblica corrente. Il tutto preceduto da un impegno solenne a non finanziare più in disavanzo le nuove spese, destinando la vendita progressiva del patrimonio a ridurre lo stock del debito accumulato nel passato.

 

Mentre l’eurolira era filata liscia al Consiglio dei ministri, il piano lacrime e sangue si era incagliato. Alessandro Di Battista, ministro degli Interni, aveva sollevato subito l’obiezione chiave: “Come faccio a controllare l’indignazione popolare?”. Leonardo Becchetti, ministro della Povertà lo aveva spalleggiato subito. “Addio reddito di cittadinanza, addio mense vegane, addio piste ciclabili”, aveva sospirato Danilo Tondelli responsabile delle riforme. E via via tutti i ministri avevano levato alti lai. “Dobbiamo sentire Beppe”, aveva detto Di Maio per uscire dall’impasse senza sapere che Grillo zitto zitto aveva dato il via libera, anche se il razionalista Zingales non si faceva troppe illusioni e temeva che il leader massimo cambiasse idea di fronte alla sommossa dei suoi fidi. La preoccupazione politica era seria, sia chiaro. E’ vero che il Movimento aveva una solida maggioranza alla Camera (il Senato con il sistema proporzionale era rimasto ballerino), ma era evidente a tutti come avrebbero reagito Matteo Salvini e la Giorgia Meloni che potevano contare sul 20 per cento dei deputati. Quanto a Pd e Forza Italia, non si sarebbero fatti scavalcare né a sinistra né a destra per non perdere quel che po’ di consensi conservati.

 

 

Zingales adesso capiva bene “siccome sa di sale lo pane altrui e quanto è amaro calle lo scendere e il salire per l’altrui scale” (recitava proprio così il tweet inviatogli da Matteo Renzi che da Rignano sull’Arno si fregava le mani con un non celato senso di rivincita). L’economista che da giovane voleva salvare il capitalismo dai capitalisti, arrivato alla matura età doveva salvare l’Italia dagli italiani che lo avevano votato. Il brillante professore stimato in mezzo mondo (l’altro mezzo lo odiava non proprio cordialmente) ci aveva messo la faccia e stava compromettendo la carriera, il buon nome, la credibilità: anche lui che aveva esordito con considerazioni di un impolitico alla Thomas Mann, rischiava di rimanere vittima della politica.

 

Nel 2004 scrive
con Raghuram Rajan
il pamphlet polemico “Salvare il capitalismo dai capitalisti”.
Via lobby e monopoli

Già, passione distruttiva la politica, una brama che consuma e deforma nei momenti alti così come in quelli bassi che inesorabilmente arrivano. Zingales, nato a Padova nel 1963 si laurea summa cum laude nel 1997 alla Bocconi, prende un dottorato al Massachusetts Institute of Technology di Boston, poi va a insegnare Teoria della finanza e dell’impresa a Chicago dove rafforza il suo credo liberista. Nel 2004 scrive, insieme all’economista indiano Raghuram Rajan (uno dei più brillanti cervelli economici della sua generazione) un pamphlet polemico intitolato Salvare il capitalismo dai capitalisti, per denunciare tutte le pratiche monopolistiche che minano dall’interno le magnifiche sorti e progressive del libero mercato. Un libro brillante che piace soprattutto ai progressisti. “Il liberismo è di sinistra”, scrivono Alberto Alesina e Francesco Giavazzi tre anni dopo, quando già nubi nere e spesse incombono sul grande boom della globalizzazione finanziaria.

 

La crisi crea amarezza, ma non scuote le convinzioni di Zingales che nel 2012 pubblica Manifesto capitalista. Una rivoluzione liberale contro un’economia corrotta. Chi aveva creduto che libertà e uguaglianza fossero raggiungibili grazie al libero mercato, sostiene, è rimasto deluso, anzi persino truffato, non dal capitalismo come idea, che resta giusta e insuperata, ma dalla sua incarnazione concreta che ha tradito i sacri principi. La soluzione, però, non sta in un populismo che rifiuti i meccanismi economici, perché altrimenti si rischierebbe di perdere ciò che rimane del "migliore dei sistemi possibili, che, pur con tutti i suoi difetti, offre sempre il maggior numero di opportunità al maggior numero di persone". La via d’uscita, dunque, è nella difesa del libero mercato, quello vero, ripulito dalle lobby, dai monopoli e dalla corruzione che ne hanno causato la sua degenerazione; bisogna premiare il merito, favorire la concorrenza, eliminare i privilegi e sostenere l’istruzione. Il Manifesto capitalista è la premessa a un ingresso in politica con il movimento Fermare il declino. Intanto Zingales fa la spola da Chicago a Milano per partecipare ai consigli di amministrazione di Telecom Italia.

 

Le elezioni del 2013 sembrano l’occasione per una vera e propria discesa in campo, ma succede che Oscar Giannino, uno degli animatori del movimento, si lasci sfuggire di aver studiato a Chicago. Apriti cielo. Una piccola bugia nata per vanità si trasforma in una grande menzogna agli elettori. Zingales prende carta e penna, denuncia e si ritira indignato. Ma non del tutto. Nel 2011 era salito per la prima volta sul palco della Leopolda e Renzi gli era sembrato l’uomo che potesse davvero fermare il declino. Nel 2014 entra nel nuovo consiglio di amministrazione dell’Eni nominato dal presidente del Consiglio Renzi. Dura solo un anno, perché si dimette in polemica con l’arrivo nell’azienda petrolifera, come vicepresidente, di Lapo Pistelli, parlamentare Pd e già vice ministro degli Esteri. “Il rottamatore non funziona più”, dirà Zingales al Foglio e proprio le nomine (oltre alla spending review) consumano la rottura.

 

“La nostra crisi
non è colpa dell’euro”, scrive poi. Apprezza
il reddito di cittadinanza, curiosa posizione
per un mercatista

E l’euro? Su questo l’economista ha continuato a tentennare. Dopo l’articolo sulla “separazione consensuale” si convince per un breve periodo che sia possibile una sorta di lega del sud, salvo poi scoprire che né la Spagna né, tanto meno, la Francia sono disposte a mettersi contro la Germania. Così sposta il tiro sulle debolezze italiane. “Il messaggio più importante che vorrei trasmettere – scrive – è che la nostra crisi attuale, in cui siamo da quasi vent’anni, non è colpa dell’euro né può essere risolta uscendo da esso. Anzi, la nostra crisi strutturale rischia di essere peggiorata da una nostra uscita dall’euro… Il vero problema è che sono vent’anni che la produttività nel nostro paese non cresce. E se la nostra produttività non riprende a crescere, non possiamo competere in Europa e nel mondo, con o senza euro”. Dunque, riforme strutturali. Proprio come diceva Renzi. Ma all’infatuazione segue quasi sempre una delusione.

 

Adesso definisce “chiacchiere inutili” quelle che lo vorrebbero candidato in un governo pentastellato. Apprezza, però, il reddito di cittadinanza, curiosa posizione per un mercatistica. In una intervista alla Stampa non può non ammettere che quella misura assistenziale “rischia di creare disincentivi a lavorare”, tuttavia “i 5 Stelle hanno il merito di aver introdotto nel dibattito italiano la necessità di cercare una soluzione al problema della perdita di lavoro in una transizione e tecnologica”. Ma non serve proprio a questo la cassa integrazione straordinaria, prorogata senza limiti durante la lunga recessione? Uno strumento, tra l’altro, che la Germania ha introdotto ispirandosi al modello italiano. Verrebbe assorbita nel reddito di cittadinanza? E a spese di chi, dei contribuenti anche quelli che un lavoro ce l’hanno e già pagano tasse e contributi? In tal caso, diventa un fondo di solidarietà, una mera redistribuzione della torta esistente, proprio quello che non piace ai liberisti come Zingales. Contraddizioni in senso al popolo, anzi all’élite.

 

Ma come prosegue il nostro romanzetto di fantapolitica? Il finale è aperto. Ve ne proponiamo uno che ci sembra il più realistico. L’amaro calice va di traverso. Marine Le Pen, presidente della Repubblica francese, sta con i tedeschi spiegando: “Il vecchio euro è morto viva il nuovo euro, la vecchia Europa è finita viva la nuova Europa”. La Spagna s’allinea e Lisbona segue. L’Irlanda vuol rubare lavoro ben retribuito all’Inghilterra, con meno tasse e una moneta solida; la Scozia indipendente è sulla stessa linea. Resta la Grecia. L’amministrazione Trump propone un prestito (senza Fondo monetario) come anticamera della dollarizzazione. Intanto, in Italia nessuno compra i palazzi e i terreni; crollano in Borsa le aziende a partecipazione statale; Unicredit sposta il suo quartier generale a Monaco di Baviera; Intesa, imbottita di Btp svalutati, chiede l’intervento dello stato; l’Eni viene comprata da Gazprom per un’eurolira. Un finale da gufi. Magari l’Italia rinasce con un piano Mnuchin che prende esempio dal piano Marshall. Chissà. La politica? Beato chi la capisce. Quanto all’economia, è una lotteria peggio della Coppa del mondo di calcio quando si arriva ai rigori.

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