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Il disordine italiano tra ingovernabilità assoluta e magistratura politica

Redazione

Il vuoto della politica. Chi ha trasformato l’appello al popolo in una mozione di sfiducia alla democrazia rappresentativa

Professor Cassese, parliamo del sistema politico italiano. A che punto siamo, secondo lei? E’ troppo dire all’anno zero? Ci dobbiamo chiedere dove sia finita la politica, quella fatta di idealità, ideologie, programmi, indirizzi. Il dibattito tra le parti si è elementarizzato, si fa per slogan. Ma questi non riguardano tanto le cose da fare, le politiche, quanto le condotte e lo stile delle persone. L’agenda e le “piattaforme” – come dicono gli inglesi – finiscono per essere dettate dalle procure invece che dalla classe dirigente del paese. Lei ha capito perché si è verificata una “itio in partes” nel Pd? Solo perché non piace lo stile decisionista di Renzi? O perché quest’ultimo non ha fatto qualche telefonata?

 

Dove ha origine questo vuoto?

Andiamo per ordine. Cominciamo dall’elettorato. Questo è divenuto “disponibile”, fa contratti di breve durata con i partiti, preferisce non dare appoggi pluriennali. A questo orientamento corrispondono i “cambiamenti di casacca” in Parlamento. I partiti erano i canali di trasmissione della domanda politica dalla società civile allo Stato. Erano le scuole dove si formava la classe politica e si selezionavano i governanti. Ora sono diventati movimenti, reti che cavalcano o formano gli umori della società civile, senza guidarla verso obiettivi di medio o lungo termine. Una volta la base dei partiti era amplissima: i tre maggiori partiti nell’immediato secondo Dopoguerra avevano circa 10 milioni di iscritti. Molti di questi si riunivano nelle sedi locali per discutere. Ora gli iscritti, la base dei partiti esistenti, si è rarefatta (sembra che il Pd non abbia più di 400 mila iscritti). Non c’è lavoro collettivo. Le persone sono “volti nella folla”, per ripetere il titolo di un famoso libro americano di sociologia. La rete permette di comunicare, ma è la rivincita dell’individuo. Quello che una volta era un discorso da bar, ora può avere una diffusione generale. La radio e i giornali aprono “sportelli di dialogo” con ascoltatori e lettori, dando spazio alla voce dell’individuo, non al dibattito collettivo. Tutti si fanno sentire, nessuno discute, mette a confronto le proprie idee, cerca di convincere ed è pronto a farsi convincere.

 

Da dove ha origine questo “sfarinamento”?

Dai partiti, che si sono sfaldati. Dopo il 1992, quel che restava dei partiti ha visto un numero impressionante di cambiamenti di denominazione. Oggi le maggiori forze politiche rifiutano anche di usare il termine partito nella loro denominazione. All’interno, manca democrazia, spesso l’opposizione è nella stessa maggioranza. I partiti debbono essere strumento della democrazia della Repubblica, ma non sono essi stessi democratici al loro interno. Pensi alla incertezza sulle regole interne di partito: Grillo che cambia le carte in tavola sulla candidatura genovese o il dibattito su quando tenere il congresso e le primarie nel Pd. Come può esserci democrazia interna se le poche regole interne sono “malleabili”?

 

Sì, ma i partiti hanno la loro rappresentanza in Parlamento.

Mette il dito su un’altra piaga. Perché oggi è questa rappresentanza che viene posta in dubbio. La rappresentanza dovrebbe essere la rappresentazione del paese, che però rifiuta di farsi rappresentare, o ha dubbi su chi lo rappresenta. E non è fenomeno soltanto italiano, anzi è scoppiato nel Regno Unito, come ha osservato acutamente Gina Miller, la capofila del ricorso alla Corte suprema britannica sulla Brexit: “Il Regno Unito non è una democrazia diretta. Quando alzi le aspettative delle persone, chiamandole al voto in questo modo [il referendum sull’uscita dall’Unione europea], alimenti la sfiducia nel sistema politico” (Corriere della Sera del 14 marzo scorso). Insomma, l’appello al popolo funziona come mozione di sfiducia nella democrazia rappresentativa, rompe l’equilibrio governanti-governati. Nel desiderio di avere un plebiscito sul suo nome, Renzi, concentrando tanta attenzione sul referendum costituzionale, non si è reso conto di aver messo una trave sulla strada della democrazia rappresentativa. Questo ha conseguenze sul lavoro parlamentare.

 

Quali?

Distacco Parlamento-governo. Decine di proposte parlamentari giacciono nelle commissioni, mentre i disegni di legge del governo sono votati con maxi-emendamenti e mozioni di fiducia. Non ci sono inchieste, “white papers”, “green papers”, che analizzano problemi, enunciano linee politiche, preparano l’opinione pubblica. Il Parlamento ha rinunciato a uno dei suoi compiti fondamentali, quello di controllo del governo e della Pubblica amministrazione. Se ci sono dibattiti, riguardano l’immunità del parlamentare, il vitalizio (o quello che di esso rimane), comportamenti, stili, umori di bottega, non problemi, politiche, strumenti di azione. Un piccolo esempio di questa crisi della politica. Il Pd ha tenuto una assemblea a Torino. Pare che vi abbiano lavorato una decina di commissioni tematiche. Quanto di questo lavoro è divenuto parte del discorso dei leaders, penetrando nell’opinione pubblica? L’agenda delle ultime settimane è stata dettata non dalla politica, ma dal desiderio di rivincita di un sindacato, la Cgil, che si è sentito escluso da tre anni di governo, dopo essere stato abituato a decenni di cogestione, e ha tentato l’appello al popolo. Così la politica si svolge su due piani. 

 

E questo non è tutto: c’è ancora il governo.

Non solo il governo, ma anche la magistratura. Cominciamo dal primo. Ci avviamo su una strada chiarissima, riassunta dal titolo di un articolo di D’Alimonte: “Ingovernabilità assicurata” (Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2017). Sul più breve periodo, da qui alle elezioni, non ci si può aspettare molto, anche se siamo di fronte a un obbligo comunitario, quello di una manovra di qualche miliardo. Finora il governo ha fatto marce indietro, limato, attenuato. La composizione del governo attuale – si disse – è fotocopia di quello precedente. Non lo sono gli indirizzi. Pensi soltanto alla scuola, ai “precari storici”, ai “voucher”. O alle nomine nel “parastato”, dove, invece di assicurare continuità, si cambiano gli amministratori senza che venga spiegata la ragione che ha guidato nelle scelte dei vertici.

 

Resta da parlare della magistratura

Una volta il solo parlarne come parte del sistema politico avrebbe stupito. Ora la magistratura è divenuta protagonista del sistema politico. Essa è troppo e troppo poco presente. Troppo, per la corsa delle procure a far la parte di Robin Hood, a mettere in piazza immoralità, reati, disfunzioni. Troppo poco perché spesso si ferma all’accusa, sottraendo la giustizia al giudice naturale, che è il tribunale, e portandola nelle mani dell’opinione pubblica, in quel meccanismo che si chiama “naming and shaming”. Si potrebbe dire: i magistrati (l’accusa) contro i magistrati (le corti). Senza contare che non esiste un obbligo di decidere entro termini brevi e certi.

 

Nessuna speranza?

Potrei risponderle con Hegel: ho fiducia nell’“immane potenza del negativo”. Ma bisogna credere anche nella dialettica.

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