Matteo Renzi sul palco del Lingotto (Foto LaPresse)

Ecco come Renzi vuole recuperare il Pd, ma non trova più il format

Redazione

L’orgoglio del partito (“eredi non reduci”), la paura come collante dei populismi, e le carezze a Gentiloni. Ma anche una certezza: “Il segretario sarà il candidato premier”

Torino. Prima l’inno di Mameli, poi Robbie Williams, infine tre erre: “Rilanciare”, “ripartire”, “restituire” (la speranza). Il congresso del Pd comincia con Matteo Renzi che al Lingotto di Torino parla dallo stesso palco dal quale dieci anni fa Walter Veltroni battezzava il nuovo partito: “Siamo eredi della migliore tradizione, non reduci”, dice Renzi, “ripartiamo dai luoghi che hanno segnato la nostra storia”. E l’ex segretario e candidato prende ovviamente la scena, leopoldizza un po’ il congresso (nel senso della semplificazione e dell’accentramento), dunque fa gli auguri agli avversari candidati alla segreteria – “un caloroso in bocca al lupo a Michele Emiliano e Andrea Orlando” – auguri che a tutti suonano come sinceri anche perché abbastanza facili, visto che secondo quei sondaggi riservati che lui ha già compulsato sarà lui a vincere, e non di poco: Renzi 67 per cento, 20 Emiliano, 15 Orlando. 

  

  

Ma la nuova versione renziana non sembra ancora trovare il suo format, la sua narrazione coerente, quel passo martellante e novista che è fin qui stato cifra del suo successo. Abbandonata (inevitabilmente) la parola “rottamazione”, proprio lui, l’importatore in Italia dello “storytelling” anglosassone, sembra infatti non aver ancora scoperto gli ingredienti di una nuova sceneggiatura. Dunque, nel suo discorso, Renzi dà una botta agli “speculatori politici della paura”, Grillo, Salvini e Le Pen (“la paura è il loro investimento a breve termine”), dà una botta, ma senza insistere troppo, alla sinistra “rancorosa” e scissionista (“la sfida non è il quotidiano nauseante ping pong di queste settimane e mesi che ha stancato anche gli addetti ai lavori e non ha senso”), dà una botta ai tecnici dell’euroburocrazia e persino in controluce a Mario Monti, cui si riferisce abbastanza evidentemente l’allusione ai “premier anti italiani” (ma contemporaneamente l’ex segretario dice pure che “l’Europa siamo noi”).

 

E insomma Renzi alterna una visione da “società aperta”, globalista e antisovranista, a critiche anche puntute ai meccanismi europei (“credo che l’Italia debba impegnarsi per l’elezione diretta del presidente della Commissione europea. Ci vuole più democrazia e non burocrazia”). Dosa considerazioni di buon senso sul reddito d’inclusione, e spruzza tutto, qui e lì, con parole chiave, quasi degli hashtag che ritornano, che ricorrono più volte nel corso dell’intervento, ma che pure non bastano a dare un sapore definito a questo lungo discorso d’esordio e di programma: “#cultura” (intesa come patrimonio nazionale) e poi “#comunità”, “#popolo” e anche “#partito”. “D’ora in poi ci sarà maggiore collegialità”, dice infatti a un certo punto Renzi, che forse ci tiene a far capire – ma anche no – di aver dismesso i panni del bullo. “Non a caso abbiamo fatto un ticket”, specifica, riferendosi a Maurizio Martina, il ministro dell’Agricoltura che, al termine del discorso, sale sul palco per abbracciarlo.

 

Insomma c’è di tutto un po’ in questo nuovo Renzi che lancia anche una piattaforma digitale, in concorrenza con la Casaleggio Associati, “domenica presenteremo la nostra piattaforma sul web. Si chiamerà non Rousseau, ma Bob, come Bob Kennedy. Chi vorrà avrà la sua password con il suo pin. E’ la piattaforma che si collega con le feste dell’Unità. Non lasceremo la straordinaria invenzione del web nelle mani di chi fa business e soldi con gli ideali degli altri”. Quanto al governo, solo messaggi distensivi, in linea con l’impressione ormai diffusa che la legislatura sia destinata ad arrivare al 2018, alla sua scadenza fisiologica. “Noi siamo qui per far ripartire l’azione del governo. Siamo convintamente al fianco di Gentiloni”. Ma la sola idea che il prossimo candidato premier non sia lui, non sia Renzi, l’ex segretario – e quasi certamente futuro segretario – la respinge, in un passaggio che non è certo un dettaglio: “L’identificazione tra segretario e candidato premier non è una questione di statuto o di ambizione, ma è una consuetudine europea”. E questo proprio mentre uno degli sfidanti, Orlando, al contrario dice esplicitamente che non intenderà fare il candidato premier se dovesse vincere le primarie: “Il Pd deve essere ricostruito. E bisogna impegnarsi. Non si può fare più come negli ultimi due anni”.