Tribunale di Torino (foto LaPresse)

Il carburante della nuova demagogia

Giuliano Ferrara

Le distorsioni della giustizia italiana passano da due fake formule: “La legge è eguale per tutti” e “tolleranza zero”

Due formule ci sovrastano e soffiano forti nell’aria del tempo: “La legge è eguale per tutti” e “tolleranza zero”. La maggioranza dei cittadini, e non è un dato soltanto italiano, pensa che questi concetti sono semplici, chiari e univoci, segnacoli nel vessillo della sicurezza e dell’eguaglianza di tutti e di ciascuno davanti alla legge. La maggioranza spesso ha ragione. Qualche volta si sbaglia. Spesso la maggioranza dell’opinione si forma in ragione di una libera riflessione comune. Qualche volta si forma sulla base del pregiudizio e dell’emotività, le due armi principali in mano ai demagoghi. Se hanno un senso le minoranze, è quello di cercare di vedere meglio o altrimenti dal mainstream come stanno le cose. Da oltre due decenni è questa la funzione del nostro giornalino. “Vivere con il tempo ma non diventare creature del proprio tempo”, come diceva Allan Bloom, spericolato e geniale filosofo straussiano.

 
La legge eguale per tutti non è, nonostante le apparenze, concetto univoco. È ovviamente vero che il furto di un melone e il furto di un miliardo, con differenze rilevanti nelle pene per gli imputati e dopo un giusto processo, sono reati, e come tutti gli altri reati e non importa da chi siano stati commessi, devono stare sotto lo stesso tetto della legge eguale. La democrazia liberale non prevede eccezioni per censo, per status o altro. C’è però un caso in cui è ragionevole stabilire delle eccezioni, non nel risultato finale che concerne tutti i cittadini allo stesso titolo, ma nella procedura che riguarda gli attori del potere rappresentativo: eletti del popolo, governanti scelti dagli eletti, candidati alle elezioni. In questi casi, specialmente nei paesi in cui l’ordinamento giudiziario è composto di funzionari nominati per concorso e in regime di autogoverno corporativo e di indipendenza dagli altri poteri, esecutivo e legislativo, la democrazia liberale spesso prevede, e secondo me deve tassativamente prevedere, una eccezione di rango costituzionale.

Chiunque capisce che se un ceto togato, irresponsabile di fronte al popolo elettore, ha il potere di indagare, arrestare e processare i soggetti della rappresentanza, i politici, senza che le assemblee elettive autorizzino la procedura assumendosi la responsabilità della loro scelta per il sì o per il no davanti al loro giudice popolare, i cittadini, la divisione liberale dei poteri è morta, non esistono più i pesi e i contrappesi che fanno di una democrazia ispirata allo stato di diritto quel che essa è. Il dominio del ceto togato, che ovviamente non è né infallibile né estraneo per definizione alle passioni tristi della faziosità politica, diventa un rischio mortale.

 

È come per la sovranità, a parti rovesciate: essa appartiene al popolo, “che la esercita nei modi e nei limiti fissati dalla Costituzione”, la norma fondamentale. I padri della Costituzione più bella del mondo, mai così in ghingheri come di questi tempi, almeno a chiacchiere, avevano stabilito questi due princìpi decisivi, i limiti della sovranità e la necessità di un’autorizzazione a procedere spettante agli eletti dal popolo, per salvaguardare il carattere di una Repubblica bene ordinata.

 

Sapevano benissimo che si correva il rischio di abusi, l’autotutela corporativa dei politici e la restrizione dei diritti sovrani del popolo, ma preferirono, perché erano gente accorta e sensibile ai pericoli della demagogia e dell’anarchia insiti nella confusione dei poteri e nel loro squilibrio, correre il rischio di abuso che quello inverso, il trionfo del giustiziere irresponsabile e della parodia di sovranità che è l’appello diretto al popolo fuori dai limiti della Costituzione (la Casaleggio Associati che usa un trattamento ribaldo degli eletti allo scopo di aprire le istituzioni come una scatola di tonno, la loro formula bassogiacobina e bassototalitaria).

 

Tutti sono dunque eguali davanti alla legge, ma alcuni devono essere meno eguali degli altri, e per ragioni forti, Dio santo. D’altra parte se Fillon e Berlusconi, il primo un personaggio ultraistituzionale e il secondo un outsider anomalo, hanno usato le stesse identiche parole per definire l’assedio togato alla politica come un assassinio che neutralizza il potere del popolo, e lo hanno fatto in circostanze diverse ma eguagliate dal prepotere di magistrati in regime di supplenza politica, qualche problema con i funzionari della legge in rapporto agli eletti deve pur essere riconosciuto.

 
Tolleranza zero, per venire alla seconda formula, non significa una gestione severa dell’azione penale o della disciplina ecclesiastica (tolleranza zero è la parola d’ordine che la chiesa si fa imprestare dal secolo per regolare la sua ossessione, che ovviamente ha delle basi, per le relazioni sessuali abusive e corrotte che si insinuano in una parte piccola del suo clero, ma con effetti di scandalo e sofferenza seri per le vittime).

 
Non si capisce se le dimissioni di una componente della commissione istituita tre anni fa da Papa Francesco per combattere gli abusi siano effetto di un complotto curiale contro il Papa buono e santo o un complotto del Papa gesuita e della sua cerchia contro le resistenze della curia al suo programma, al centro del quale sarebbe il tentativo di sventrare e conquistare il dicastero chiave della Dottrina della fede. Forse, nessuna delle due: non è detto che una vittima di abusi sia anche persona in grado di gestire le procedure e i tempi del Vaticano in materie tanto delicate. E allora tutto viene semplificato: tolleranza zero in nome delle vittime, chi è pro è bravo e chi è contro è cattivo.

Ma Socrate, che non era un fesso di passaggio, e che lavorava sui temi della conoscenza, della virtù e della morale ben prima della rivelazione evangelica, domanderebbe in un ideale dialogo platonico: mi date una definizione precisa del concetto di tolleranza zero? E aggiungerebbe: reati e peccati si rimuovono e si sanzionano con la discrezione della legge civile e canonica (nel senso di scelta caso per caso basata su princìpi generali non automatici), cioè con la giustizia, o con l’estirpazione del male del mondo a colpi d’ascia e di coltello? Siamo poi certi di quello che sempre gli zero-tolleranti sostengono e praticano, cioè che la loro giustizia si amministra non in nome e per conto del popolo ma in nome delle vittime? Non c’è in questo un rischio mortale per la giustizia stessa, il rischio dell’urlo demagogico al posto del giudizio probatorio razionale?

 
Ecco, se aggiungiamo alle due formule sbilenche nella loro interpretazione demagogica, anche il principio di precauzione, per cui ti tempestano di intimazioni, divieti, norme di vita e di lavoro che soffocano ogni libertà, anche e sopra tutto la libertà di vivere a proprio modo senza nuocere agli altri, e infantilizzano il cittadino facendone il suddito ideologico di un sistema che lo schiaccia, ecco, se aggiungiamo anche quest’ultima maestosa scemenza dovremo tornare in fretta all’idea che si deve “vivere con il tempo ma non diventare creature del proprio tempo”.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.