Silvio Berlusconi (foto LaPresse)

C'è un piano del Cav.? Parla Paolo Romani

Salvatore Merlo

“Dobbiamo ancora capire se Salvini vuole governare o solo spararle grosse”

Roma. Proprio quando sembrava fatta, nel momento in cui Matteo Salvini quasi si fregava le mani, ecco che il Cavalier fantastico (Silvio Berlusconi) fa un passo di lato, e dal cilindro tira fuori un altro dinosauro, l’ennesimo, e forse nemmeno l’ultimo, cioè Luca Zaia. “E’ proprio bravo”, altro che Salvini! E la ricomposizione del centrodestra, tra popolaristi e sovranisti, democristiani e postfascisti, anime nere e anime verdi, sospeso tra umori di lotta e umori di governo o forse tra sbracatura e compostezza, si presenta come una matta tavolozza di colori “che però, se si unisce, arriva al 34 per cento e se la gioca per vincere le elezioni”, dice Paolo Romani, capogruppo di Forza Italia in Senato, un uomo che va ascoltato per intercettare almeno uno – di solito quello meno urlato, dunque forse anche più pragmatico (o cinico) – tra i mille giochi che Berlusconi sempre ama giocare contemporaneamente. Uno spartito tutto diverso da quello che, per esempio, il Cavaliere fa suonare a Giovanni Toti, il governatore della Liguria che invece a Salvini lascia pensare d’aver già agguantato la corona del leader. “Noi, la Lega, Fratelli d’Italia e gli altri partiti del centrodestra siamo obbligati a una coalizione, la più ampia e inclusiva possibile”, dice Romani, “e a obbligarci sono la frammentazione del Pd, incastrato nel suo dibattito interno, e la forza compatta che invece esprime Grillo”. E insomma se Toti parla la lingua sovranista di Salvini, spingendosi a disegnare nell’aria il profilo d’un partito unico, per Romani invece il codice si sintetizza nell’espressione “Polo liberal popolare”, tre parole. “Si tratta di ripetere l’alchimia che Berlusconi seppe distillare nel ’94, quando mise insieme la Lega secessionista con il Movimento sociale”. Arduo, se Lui, il Cavaliere impresario, non è candidabile.

 

“La candidabilità di Berlusconi dipende dalla famosa sentenza della Corte di Strasburgo”, dice Romani, “ma il Cavaliere non è tanto alla candidabilità che pensa, quanto alla sua riabilitazione politica totale, dopo la condanna ingiusta che, l’espressione è forte ma rende l’idea, è stata un atto di ‘terrorismo giudiziario’”. E allora è Zaia adesso l’uomo del Cavaliere, opposto a Salvini? “Berlusconi ha una buona considerazione di Zaia, ed è contrario al meccanismo delle primarie, che nel nostro mondo non funzionano e che se si vogliono fare devono essere serie e regolamentate per legge (a proposito, dico a tutti, anche al Pd: perché non se ne discute, assieme alla riforma elettorale?)”.

 

Zaia, dunque, che è quasi più democristiano che leghista. Ci sono due partiti dentro la Lega? “Ci sono Zaia e Maroni, che esprimono cultura di governo”. E poi c’è Salvini. “Che io non sempre capisco”, dice Romani. “Adesso propone improvvisamente, assieme a Giorgia Meloni, di fare delle gazebarie l’8 di aprile. E’ una cosa così…”. Una sparata? Una boutade? Una provocazione? “Diciamo che contestano la leadership di Berlusconi. Ma fanno un atto forse più generazionale che politico, perché conquistarsi la leadership non è una questione di età quanto di qualità e di autorevolezza”.

 

E però con Salvini e Meloni c’è anche un pezzo di Forza Italia, o quanto meno c’è Giovanni Toti. Già adesso i due lepenisti hanno fatto breccia nel campo del Cavaliere. “A Giovanni voglio bene”, risponde Romani. “E la sua posizione, personale, la capisco perfettamente. Lui governa la Liguria con la Lega, e con una maggioranza che si tiene con un solo voto di scarto. E’ ovvio che lui si muova all’interno dello schema ligure”. Infatti vuole il partito unico, con Salvini capo. “A me piace un’espressione che ha usato Gaetano Quagliariello: partito di coalizione. La Lega è forte al nord, ma sotto Firenze ha percentuali residuali. Quindi l’accordo con noi, per loro, significa acquisire una dimensione nazionale che altrimenti non avrebbero. Direi che per Salvini, che non esprime più ambizioni secessioniste, è un miglioramento”. Allora bisognerebbe spiegarglielo, perché lui non sembra d’accordo. “C’è da ragionare. A mente fredda. Ho spesso l’impressione, direi fondata, che Salvini sia un po’ troppo incline agli slogan. Ma se abbassiamo il tono di voce, e usiamo dei sinonimi per tradurre quello che dice anche lui, poi in realtà non siamo così lontani”. Esempio? “Sull’immigrazione siamo d’accordo”. La ruspa? “Lui urla ‘ruspa’, ma poi sulla questione dell’immigrazione siamo tutti d’accordo nel considerarla un’emergenza negletta”. E allora la differenza sta nel linguaggio? Il linguaggio è sostanza. “Si tratta di capire solo se Salvini vuole prima o poi andare a governare, o se invece gli piace stare all’opposizione. Anche sull’euro e l’Europa non siamo affatto distanti, se si depura il dibattito da certe ‘sparate’ a effetto”.

 

Siete per uscire dall’euro pure voi, iscritti al Ppe? “La Brexit c’è stata, e non è stata una tragedia. E un serio interrogativo sull’opportunità, e sui vantaggi dell’Italia nel restare dentro l’eurozona ce lo dobbiamo porre. E non è un’eresia. Con l’Europa si può anche fare la voce grossa, se sforiamo il vincolo di bilancio per finanziare la crescita e aiutare i quindici milioni di italiani in difficoltà economica non è un reato. Finché c’è il Quantitative easing si può fare. Basta volerlo. E avere la forza di imporsi”. Ma Salvini vuole proprio uscire dall’euro e dall’Unione. “Dirlo in piazza è facile. Farlo, stando al governo, è un altro paio di maniche. E mi auguro che prima o poi Salvini e Meloni al governo ci vogliano andare”. Dicono di sì, ma dicono anche che Forza Italia dopo le elezioni finirà alleata del Pd nella grande coalizione. “E’ una cosa sciocca. Senza senso”. Mica tanto. “Quando si corre alle elezioni tutti corrono per vincere, nessuno si candida pensando di fare un patto con gli avversari. Sarebbe stupido”. Ma poi se non vince nessuno è lì che si va. E i sondaggi dicono che le prossime elezioni non le vince nessuno. “Le elezioni saranno a febbraio del 2018. E’ un’èra geologica. Se ci organizziamo, e Salvini smette di sparare slogan, noi queste elezioni le possiamo vincere”. 

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.