Tommaso Nannicini, professore ordinario di Economia della Bocconi ed ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio durante il governo Renzi, è uno dei volti chiave del nuovo Pd renziano (foto LaPre

Una nuova agenda Renzi

Nannicini spiega perché il Pd può rinascere solo con il metodo jobs act

Luciano Capone

“Il lavoro di cittadinanza sarà un grande modello di decontribuzione individuale. L’Europa è al centro del Pd del futuro”

Roma. “Si ripartirà dal Lingotto ma con un metodo diverso, il programma non verrà calato dall’alto ma emergerà da un’ampia discussione. Non ci sarà nessun pitch”. Tommaso Nannicini, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio e punto di riferimento in materie economiche di Matteo Renzi, si riferisce alle indiscrezioni che parlavano di un programma già chiuso da lanciare ai media il 10 marzo a Torino, dove Renzi, nel luogo in cui 10 anni fa nacque il Pd, presenterà la mozione congressuale per provare a riconquistare il partito. Nannicini spiega al Foglio in cosa consiste il nuovo approccio, diverso dal “metodo Chigi”, quando il governo elaborava proposte che il partito metabolizzava a fatica: “Bisogna imparare dalle sconfitte e dagli errori, per cambiare il paese occorre coinvolgere la base e fare una battaglia per l’egemonia culturale, per questo ci saranno sessioni seminariali separate per confrontarsi e una seduta plenaria. Niente programmi calati dall’alto né scelti da un blog con un algoritmo, al modello Rousseau preferiamo Socrate”. La volontà di ripartire dal basso è rappresentata dal fatto che Nannicini, dopo aver lasciato gli incarichi di governo e saltato il rinnovo della segreteria del Pd, si presenterà al Lingotto senza incarichi. Anche se è difficile vederlo come un “semplice militante”, vista la vicinanza al leader: “Bisogna creare luoghi di discussione, non per tornare alla concertazione e ai veti incrociati, ma per costruire consenso e parlare al paese. Il programma politico deve essere come un puzzle, bisogna mostrare agli italiani la visione che abbiamo in mente, valorizzando i tasselli che abbiamo già messo al governo e mostrando quelli che mancano”.

 

Quali sono allora i tasselli da cui ripartire? “Naturalmente non decido io il programma, dirò la mia, ma che il Pd non debba rassegnarsi a una democrazia consociativa, non rottamerei la parola maggioritario solo perché è andato male il referendum”. Si riparte dalle riforme istituzionali? “Anche in questo assetto istituzionale si possono prevedere accorgimenti in senso maggioritario, sia con una legge elettorale che in un quadro così frammentato abbia elementi di disproporzionalità, magari verificando se ci sono spazi per il Mattarellum, sia nei regolamenti dei gruppi parlamentari per evitare il trasformismo”. Non conforta che con questo sistema le ali estreme, M5s e Lega, non potranno governare da sole? “Fare di tutto perché nessuno vinca è un grave errore – dice Nannicini al Foglio – la vera sfida della riforma istituzionale non era tagliare i costi della politica, ma rimettere al centro la politica rendendola responsabile: chi vince le elezioni governa e poi viene giudicato dagli elettori. Anche se dovessero vincere forze politiche che potrebbero fare scelte nocive, è bene che governino, se gli italiani le scelgono”. Intanto pare che Renzi per contrastare i cosiddetti populisti sia sceso sullo stesso terreno, visto che la prima proposta è il “lavoro di cittadinanza”, una cosa che sembra un piano pubblico di assunzione per disoccupati. “No, non è un piano di lavori socialmente utili di massa, ma una sfida culturale e non è neppure una singola policy con cui lo stato chioccia trova lavoro a tutti”.

 

E cos’è? “E’ una visione per tenere insieme crescita e inclusione sociale continuando in maniera più credibile sul percorso tracciato dal Jobs Act, attraverso un menù di policy diverse che favoriscano l’attivazione e mettano al centro il capitale umano”. Qualche esempio? “C’è un reddito minimo per chi è a rischio emarginazione, su cui con la Sia e il reddito di inclusione abbiamo già messo 1,5 miliardi strutturali ma non bastano, il secondo passo sarà raddoppiare queste risorse per una platea più ampia. A queste risorse vanno affiancati servizi di riattivazione sociale, con offerte formative che trovino sbocchi lavorativi e servizi che eliminino le condizioni di disagio. Poi ci sono per altre fasce sociali le politiche attive con una formazione vera, che serva per i formati e non per i formatori”.

 

E’ una cosa che si propone da tempo, ma come si fa? “Ad esempio spostando l’accento sulla dote formativa come diritto individuale, che a 18 anni si matura con una dote messa dallo stato che si spende per un processo formativo in un circuito di soggetti accreditati e valutati sulla base dei risultati. Un altro punto del ‘lavoro di cittadinanza’ è il costo del lavoro e anche in questo caso si può pensare a un esonero contributivo come diritto individuale per i giovani: non più la decontribuzione alle imprese, ma una dote di decontribuzione individuale, e a termine, che il giovane si porta dietro in qualunque azienda. Si può dire che questo è il pezzo mancante del Jobs Act, siamo solo a metà del guado”. Quindi non è lo stato che eroga lavoro e servizi? “Lo stato può avere una parte, ma se si muove per garantire un percorso formativo, non per accendere le luci negli uffici”. Molte di queste cose, ad esempio sulla formazione, sono di competenza regionale. “Qui bisogna fare una valutazione seria perché il diritto al lavoro non lo si esercita evocando l’articolo 1 o cantando ‘Bandiera rossa’, ma vedendo se i modelli delle regioni, ad esempio in Toscana e in Puglia, danno diritti esigibili ai lavoratori”.

 

C’è però un problema di vincoli di bilancio, tra clausole di salvaguardia da disinnescare e impegni con l’Europa per il taglio del deficit. Poi ci sono promesse di taglio dell’Irpef. Dove si prendono i soldi? “Grazie alla riforma del bilancio si possono ridurre i costi della Pa per via amministrativa, attraverso sburocratizzazione e digitalizzazione dei processi. C’è poi un tema sull’allargamento delle basi imponibili, perché se si vogliono ridurre le tasse bisogna far riemergere il nero, soprattutto sull’Iva. Non si tratta solo di lotta all’evasione, ma di riformare le agenzie tributarie e rendere più efficiente la giustizia tributaria”. E’ sufficiente? “C’è poi un tema Europa, che non riguarda solo le virgole, ma la gestione di problemi fiscali globali. Ad esempio Bill Gates ha proposto l’idea di tassare i robot, ma io non penso sia saggio stoppare l’innovazione, invece c’è un tema che riguarda la tassazione dei profitti di chi si avvantaggia di più dell’innovazione tecnologica. Il tema quindi è più tassare Bill Gates che i robot”. L’Europa è un tema cruciale nel dibattito politico e anche la scissione del Pd rientra in una spaccatura che attraversa le sinistre europee. Che idee ci sono? “Spero che dal percorso che si aprirà al Lingotto, l’Europa sia al centro del nostro orizzonte ideale, ma anche della capacità di elaborazione di politiche. C’è bisogno di una nuova architettura istituzionale con un nucleo capace di fare un’unione politica più forte”. Tante riforme da fare, ma con meno spazio fiscale, un sistema istituzionale più fragile e un quadro politico più frammentato. La partita è complicata. “La strada è faticosa e non ci sono scorciatoie, ma è una sfida affascinante. Dobbiamo cambiare il Pd per creare un progetto collettivo solido, per poi cambiare l’Italia e l’Europa”. 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali