Francesco Giavazzi

Ora il Pd può essere liberista

Luciano Capone

Liberalizzazioni, meritocrazia e mercati aperti renderebbero il paese più uguale. Con la scissione Renzi può trasformare la sinistra in senso liberale. Parla Giavazzi

Oggi, soprattutto tra i populisti ma non solo, va per la maggiore l’idea che destra e sinistra non esistono più. Forse non è proprio così. Ma che al tempo della rivoluzione tecnologica, della crisi del welfare state e della globalizzazione fossero categorie vuote e per certi versi inutili se n’erano accorti dieci anni fa due tra i più importanti economisti italiani, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, con un libro che già dal titolo sembrava una provocazione: “Il liberismo è di sinistra”. Ieri i due economisti hanno ricordato l’attualità di quelle tesi dalle colonne del Corriere della sera: liberalizzare, rimuovere i privilegi, promuovere la meritocrazia e ridurre la spesa pubblica sono cose di sinistra perché favoriscono i più deboli. La sinistra non può non essere liberista, dicevano Alesina e Giavazzi, perché nelle condizioni in cui si trova il paese efficienza e giustizia sociale non sono in contrapposizione: “Le riforme liberiste renderebbero l’Italia non solo un paese più efficiente ma anche più equo – scrivevano – L’opposizione a queste riforme deriva non da una sincera preoccupazione per l’equità del paese, ma dal tentativo di difendere i gruppi d’interesse”.

 

Questo era ciò che Giavazzi scriveva dieci anni fa, ma è cambiato qualcosa nel frattempo? E’ stato fatto qualcosa? “Non fosse per il Jobs act la situazione sarebbe deprimente – dice al Foglio l’economista della Bocconi – . Il Jobs act è un’innovazione straordinaria, solo quattro anni fa avrei pensato che eliminare l’articolo 18 era un’illusione, avrei pensato che sarebbe stato molto più facile liberalizzare i taxi e le farmacie. Più della riforma del mercato del lavoro mi sarei immaginato i cittadini che viaggiano con Uber oppure più liberi di acquistare farmaci di fascia C. E’ successo il contrario, non sono arrivate le liberalizzazioni più semplici ma quelle che non ti aspetti”. I taxi. Dopo giorni di sciopero selvaggio, assedio alla sede del Pd e paralisi delle città, il governo ha ceduto. I tassisti sono stati più forti dei difensori dell’articolo 18. “Il potere delle corporazioni è fortissimo – dice Giavazzi – sono intelligenti e agiscono in modo strategico, ad esempio con lo sciopero prima della settimana della moda, mettendo in pericolo la manifestazione”. E come si fa? “Ricordo che il presidente Reagan non si piegò ai ricatti quando ci fu uno sciopero dei controllori di volo che paralizzò il traffico aereo in tutti gli Stati Uniti”. Cosa si dovrebbe fare? “Andrebbero precettati, non è possibile che ci siano persone che arrivano in aeroporto e non trovano taxi o malati che non possono andare in ospedale per fare esami fissati mesi prima”. Eppure tutti i partiti politici fanno a gara per accaparrarsi il consenso di pochi tassisti e non pensano ai milioni di cittadini comuni che subiscono i disagi degli scioperi e i costi della mancata liberalizzazione, com’è possibile? “E’ il potere delle lobby, sono organizzate e vicine, le guardi dalla finestra, mentre gli altri sono molti di più ma sono lontani. Sotto i ministeri ci sono i tassisti, non i clienti o i ragazzi che potrebbero lavorare per Uber”.

 

Le lobby sono efficaci, come si vede per tante norme contro Flixbus, Airbnb e l’home restaurant, ma in questo modo l’innovazione resta fuori. “Ci sono due temi, il primo è che se lo blocchi il mercato va sottoterra: a Venezia un appartamento su due è affittato in nero, quindi è meglio Airbnb. L’altra osservazione è che la regolamentazione è difficile da fare per servizi mai provati, per cose che ancora non ci sono, come l’auto senza guidatore. In California, quando nasce un nuovo servizio, il regolatore si siede al tavolo con l’innovatore e insieme disegnano le nuove regole, senza farsi catturare ma nell’interesse pubblico”.

 

Dieci anni fa diceva che il liberismo era minoranza in entrambi gli schieramenti, nel centrodestra e nel centrosinistra. “Se guardiamo indietro alle poche liberalizzazioni approvate, le ha fatte Bersani, ma pare che se n’è pentito e forse non le farebbe più. Berlusconi non ha fatto nulla, ricordo che Brunetta era contrario”. E ora? “Nel centrodestra non c’è più nulla. Nella sinistra Renzi ha capito solo a metà, nel mercato del lavoro ha fatto una cosa straordinaria e bisogna dargliene atto, non l’ha capita nel mercato dei servizi e dei prodotti”. E perché? “Nei servizi locali perché sono amministrati dal suo partito e le liberalizzazioni darebbero fastidio ai politici del Pd. Lo capisco – dice Giavazzi – ma per le farmacie non l’ho mai capito, di Uber ha parlato solo una volta in campagna elettorale, della legge sulla concorrenza non gli è interessato nulla, è un limite culturale”.

 

Ora con la scissione il Pd rischia di indebolirsi ulteriormente e con esso lo spirito riformatore. “Secondo me gli scissionisti alla prova elettorale si trovano in quattro gatti – sentenzia l’editorialista del Corriere – uno che vota a sinistra vota per Pisapia, una persona intelligente e un ottimo sindaco, coerentemente a sinistra tutta la vita. La gente se ne accorge quando fai operazioni per salvarti il posto. Se sono un elettore di sinistra voto lui, non voto D’Alema. Se invece credo che la vera sinistra abbia bisogno di liberismo voto Renzi”.

 

Su alcuni punti però il Pd non ha avuto una linea netta, ad esempio è stato timido sui trattati commerciali internazionali. Gli economisti si dividono su tutto, ma se c’è una cosa su cui concordano è sui benefici degli scambi internazionali. “A maggior ragione per un paese esportatore come il nostro. Qui secondo me c’è una vena verde, che ha a che fare con la protezione dei marchi nazionali, che è una cosa giusta ma si mettono dei paletti, non si fa saltare il Ttip”.

 

In tempi di sovranismo il tema dell’identità nazionale è diventato di nuovo rilevante per la proprietà delle imprese. “Questo è un altro fantasma che pare abbia affascinato il governo – dice Giavazzi – Basta andare a vedere il Nuovo Pignone, fatto diventare un centro mondiale dalla General Electric. La proprietà straniera non porta via le cose ad alto valore aggiunto quando sei capace. Arnault ha comprato Loro Piana, ma non ha spostato le attività da Biella, adesso i prodotti arrivano in 10 mila negozi nel mondo”.

 

Il grande campo di battaglia però è l’euro. La sinistra si dice europeista, ma se non fa le riforme e non fa ripartire la crescita farà aumentare i consensi dei sovranisti. “A lungo andare restiamo nell’euro se riusciamo a fare crescere la produttività. Si dice che da quando siamo nell’euro per la produttività aggregata abbiamo perso il 30 per cento rispetto alla Germania. Ma è un dato che non dice nulla, è una media di cose diverse. Da un lato imprese che hanno puntato su innovazione e nuovi mercati per cui la produttività non è un problema. Dall’altro c’è chi non ha capito o ha potuto non capire perché protetto, oppure i servizi pubblici locali che invece se ne fregano perché non falliscono. Basterebbe far recuperare a un pezzo delle imprese che non han capito ed è possibile, con le riforme, fare in modo che lo facciano.

 

Insomma il liberismo è di sinistra, per gli effetti redistributivi che produrrebbe nella società, ma la sinistra italiana non è ancora liberista. Come vede le cose rispetto a quando scrisse il libro? “Renzi dieci anni fa non c’era. L’offerta politica della sinistra era Prodi, Bersani e D’Alema. Un’altra generazione che alcune cose non poteva capirle, l’unico che doveva capirle era Prodi. Ora le chance sono più alte se questo ragazzo riesce a riprendersi in mano il partito”.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali