Renzi si rassegni a essere un altro Renzi

Giuliano Ferrara

Giusto attrezzarsi per andare a votare presto. Ma il vecchio mondo non c’è più e scimmiottarlo diventa irrazionale

Che farà Renzi? Si deve districare da un bell’impiccio, questo è chiaro. Le schiere degli avversari si infoltiscono e sono parecchio malmostose. Il loro unico criterio è la rivincita su uno che li ha sfasciati facendo la sua corsa in solitario, pregiudicando non solo il loro ruolo ma la loro immagine, il loro amor proprio (e qui siamo con La Rochefoucauld nell’abisso del cuore umano, un’ombra cupa che supera anche le regole della politica). Per capire che cosa farà o che cosa dovrebbe fare, e i due concetti sono linee parallele che tendono a incrociarsi, bisogna domandarsi semplicemente chi è. Chi è Renzi. La persona è estranea alla tradizione politica da cui viene la sinistra, sia quella comunista sia quella cattolico-democratica. E’ un boy scout, un provinciale, non un emulo delle classi dirigenti urbane di formazione togliattiana e democristiana.

 

E’ uno che si è fatto, da principio, contro quelle tradizioni. Ha sgarrato per fare il sindaco di Firenze senza il bollo di autorizzazione, ha puntato sulle primarie, prima perse poi vinte perché chi le aveva vinte contro di lui ha combinato un indecoroso pasticcio, ha portato il Pd al disastro in una legislatura bloccata dall’assenza di maggioranze politiche credibili e di programmi di riforma seri. Renzi è quello che punta al consenso popolare nel partito e fra gli elettori e lo investe nella rottamazione delle vecchie glorie. E la gloria è, con Montaigne, “questa vana immagine e questo semplice suono che non ha corpo né offre presa”, ma è la sostanza gassosa di un’identità irriducibile, quando viene offuscata. Renzi ha scelto come base politica e culturale tutto quello che il passato tradizionale dei suoi avversari considerava profano, in economia, nella conduzione di una leadership, e quel profilo, “Adesso!”, “Obama”, oggi è traumaticamente messo in discussione da quanto accade non solo in Italia, e non tanto, ma nel mondo. Poi Renzi ha scommesso sul governo in prima persona sulla base di un paradosso strategico: io che supero in breccia l’Arcinemico Berlusconi, emulando le sue gesta più sensate e popolari invece che lavorando per la sua galera, mi alleo con lui per fare una legge elettorale maggioritaria e una riforma radicale del bicameralismo.

 

E nel frattempo cerco di aiutare il paese a uscire dalla stagnazione e dalla miseria sociale con riforme di tipo liberale, di mercato, che mettono nell’angolo i sindacati, disintermediano gli impacci burocratici, mobilitano forze nuove e diverse della borghesia imprenditrice e della finanza e possono togliere dall’angolo le energie produttive e del lavoro, scatenando lo spirito animale di una ripresa sostenuta e credibile. Lasciamo stare per quali ragioni, Renzi questa scommessa l’ha persa. La legge elettorale che sostituiva il Porcellum, che era una norma ipermaggioritaria nonostante tutto, è stata riscritta dalla Corte costituzionale con una vaga impostazione maggioritaria alla Camera e il proporzionalismo della rappresentanza al Senato, e non c’è, non c’è, non c’è, non c’è alcuna probabilità che si ricostruisca una coalizione parlamentare, in queste Camere e in questi tempi politici, capace di ribaltare le conclusioni della Corte e dare una legge seriamente maggioritaria al paese nelle due assemblee elettive. La riforma costituzionale è stata bocciata anch’essa nel referendum, con le conseguenze di sistema del caso. Dopo il referendum, invece di dimettersi, Renzi avrebbe potuto legittimamente chiedere la verifica delle elezioni politiche con le leggi che c’erano. Sarebbe stata una forzatura?

 

Sì, una forzatura della cultura prevalente nel paese nemico del renzismo come del berlusconismo e del craxismo, insomma del decisionismo affidato a una leadership di tipo europeo, modello Westminster o autogoverno democratico. E’ subito prevalsa l’idea che a decidere doveva essere la Corte, che bisognava impedire un nuovo voto sotto la neve, che le nomenclature dovevano prendere il pallino in mano dopo la sconfitta referendaria, omologare i sistemi di voto che sono sempre stati diversi per due assemblee in cui tutto è costituzionalmente diverso, dalla base elettorale regionale che vale solo per il Senato alla composizione del corpo elettorale, ciascuno il suo per Montecitorio e Palazzo Madama, non c’era l’autorizzazione del Quirinale per la chiamata alle urne con un sistema elettorale maggioritario e a ballottaggio voluto dal Parlamento. Renzi poteva dire: guardate che con i voti che controllo io in nome di primarie e progetto non si fa nessun governo di transizione e non si autorizza un processo di restaurazione guidato da togati e Quirinale, sarebbe stato deflagrante ma non illegittimo. Renzi ha valutato che non ci fossero le condizioni politiche per farlo e che non gli convenisse, meglio esibire le dimissioni come atto di umiltà e rimettere al sistema la responsabilità di decidere il futuro. Ora, questa è un scelta fatale, che provoca conseguenze rimarchevoli, decisive anzi, e dalla quale Renzi non può prescindere nel definire che cosa farà, chi sarà il nuovo Renzi così diverso per forza di cose da quello di prima.

 

Forse sperava di togliersi la pressione di dosso, accondiscendendo a una gestione collegiale e consociativa del percorso elettorale, invece la pressione è raddoppiata triplicata, tra minacce di scissione, ulivi che ritornano, contestazione in radice della sua idoneità alla leadership, movimenti opachi delle correnti interne al Pd, alleati che lasciano la presa e passano dall’altra parte, presidenti emeriti che lo sgambettano in nome della civiltà politica, e la solita voglia di bastonare il reprobo dei demagoghi e dei magistrati d’assalto. Renzi si è stranamente per lui sottovalutato, ha pensato che gliela avrebbero resa facile, la vita, una volta disinnescata la “forzatura”.

 

Adesso però non ha senso indire nuove elezioni primarie per la leadership. Ma de che?, come si dice a Roma. Al voto non si andrà con il vecchio schema vinco io o vinci tu, la famosa certezza che si saprà chi è il vincitore subito dopo il voto è svanita, sostituita dalla certezza che una delle due Camere sarà eletta con il proporzionale e l’altra probabilmente senza alcun premio di maggioranza. Eppoi è chiaro come il sole che c’è un ritorno, non già dei vecchi partiti, che erano ideologia, politica tradizionale, pedagogia e cultura, ma delle vecchie abitudini partitiche adattate a questo patchwork molto colorito in cui si muovono le Casaleggio Associati, le destre divise e bizzarre e le sinistre alla ricerca di un nuovo sfilacciamento senza senso e senza progetto. Renzi dovrebbe fare quello che è, un capopartito e capocorrente che deve conquistarsi una maggioranza solida e definire un perimetro elettorale il più sicuro possibile con i tempi che dovrà necessariamente concordare allo scopo di formare un governo, chissà da chi composto e chissà da chi presieduto, nella vecchia-nuova Repubblica parlamentare che la sua decisione di non forzare gli ha apparecchiato. Premere con argomenti politici persuasivi per non perdere tempo e votare presto, va bene. Scimmiottare una cosa, un ruolo e una prospettiva che non ci sono più sembra alquanto irrazionale.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.