Pier Luigi Bersani (foto LaPresse)

La scissione del Pd

Salvatore Merlo

La partita multipla di Renzi sulla legge elettorale, sul partito e sul voto. A cosa punta il Cav.

Roma. “Avrei dovuto fare il congresso a dicembre, dopo il referendum”, dice a un certo punto. E nella sua stanza al Nazareno, Matteo Renzi, ogni tanto, si abbandona anche ai rimpianti, a momenti di stizza per l’incastro degli eventi, che non vanno come vorrebbe lui: Beppe Grillo che cambia le carte in tavola sulla riforma elettorale e gli sfugge: “E’ inaffidabile, lo sapevo, ho sbagliato”. E Matteo Salvini al quale lui adesso telefona anche più volte al giorno: “Siamo d’accordo per votare a giugno, ma con lui la riforma elettorale non si fa, ha solo quindici senatori”. E infine il partito, la minoranza del Pd, il rischio di una scissione che Renzi vorrebbe evitare, “anche se dipende dal sistema elettorale, potrebbe anche essere la soluzione che salva tutto il centrosinistra”, dice infatti a un certo punto, quasi evocando le parole di Michele Emiliano, il presidente della Puglia, che aveva detto, allusivo e sornione: “Renzi e D’Alema hanno lo stesso obiettivo”.

 

E dunque: “Avrei dovuto fare il congresso a dicembre”, ripete il segretario del Pd in un soffio, quasi mettendosi la mano sulla fronte, “fare il congresso a dicembre dopo il referendum, questo avrei dovuto fare”, e mettere a posto tutti, Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza, tutti quanti, dice il segretario, mentre con lo sguardo – di fronte a un inviato di Angelino Alfano, che lo osserva e lo ascolta – un po’ incolpa i suoi collaboratori, amici e alleati, Luca Lotti e Maria Elena Boschi, ma anche Matteo Orfini e Dario Franceschini, che erano contrari al congresso anticipato. E insomma Renzi, sospeso tra inerzia e reazione, rimpianti e progetti – “dobbiamo proporre una legge elettorale con coalizioni, premio di maggioranza e capilista bloccati”, dice, inviando così messaggi e segnali di fumo ad Alfano e Pisapia, e persino a Berlusconi – un po’ incolpa i suoi amici di errori tattici che però è stato lui a commettere. E sono piccoli forse comprensibili cedimenti caratteriali, in un contesto complicato, con gli avversari che si moltiplicano intorno a lui, con le piccole resistenza che cominciano a rivelarsi anche dentro il governo di Paolo Gentiloni e dalle parti di Carlo Calenda, mentre Bersani lo incalza sempre di più, e la parola scissione viene maneggiata senza cautela anche di fronte ai giornalisti, e diventa anzi un elemento negoziale, la si ritrova infatti sul piatto del tavolo di poker politico, anche se non è ben chiaro se sia una puntata o un bluff.

 

“Usciamo dai barocchismi, diciamo le cose chiare: se Renzi non rende il Pd contendibile allora ci sarà la scissione”, dice Miguel Gotor nelle sue conversazioni con Bersani e con gli altri uomini della sinistra interna, “va fatto il congresso o vanno fatte le primarie”, insiste Davide Zoggia, con il tono ultimativo delle richieste non trattabili, “ma che siano primarie vere”, aggiunge nel memento in cui Renzi annuncia che ci saranno le primarie a marzo, “devono essere vere come quelle che Bersani concesse a Renzi”. E allora, che qualcosa nel Pd sia destinato a succedere è chiaro, lo si avverte con la nettezza di una scarica elettrica anche quando in Transtlantico, dopo aver a lungo parlato con il ministro Andrea Orlando, le cui posizioni forse cominciano a divergere da quelle del suo vecchio amico Orfini, persino uno dei giovani turchi, Fausto Raciti, si alza in piedi e spiega che “siamo a un passaggio di fine epoca. Il Pd è nato nel bipolarismo, nella vocazione maggioritaria, in sistema che tendeva al bipartitismo. Tutto questo non esiste più. Il campo da gioco è cambiato”. E allora? “E allora la Seconda Repubblica è finita e il Pd o si rifonda o lo si scioglie”. E Boom! Tanti giochi, e la tentazione Cavaliere E allora Renzi si muove giocando tanti giochi, e su tanti (troppi?) tavoli.

 

La legge elettorale con coalizioni e premio di maggioranza allude a un centrosinistra molto largo, dove la sinistra, anche scissionista, fuoruscita dal partito, potrebbe tornare utile a recuperare voti. Ma con chi farla la riforma? Con chi ci sta. Non Grillo. Salvini non basta. “Chiedete a Verdini di chiamare Berlusconi”. Quel telefono però squilla a vuoto, per adesso. Il Cavaliere è d’accordo con Giorgio Napolitano per la prima volta nella sua vita: la legislatura deve arrivare al 2018, anno in cui “Lui” ritorna candidabile alle elezioni. “Non si può avere fretta e non si può ragionare di politica se uno dei punti è la nevrosi di Renzi che vuole votare per forza il 25 giugno”, dice infatti Paolo Romani, il capogruppo di Forza Italia, che chiude il discorso. Così, tra i tanti giochi che sta giocando, Renzi non esclude nemmeno di votare senza riformare il sistema elettorale, anzi Renzi non esclude nulla, né il voto col proporzionale né la scissione che – con il sistema attuale, quello venuto fuori dalla sentenza della Consulta – rende interessante la scissione anche per la sinistra Pd. “Avete visto i sondaggi?”, si chiedevano alcuni deputati della minoranza l’altro giorno. Con il 10 per cento, un partito a sinistra di Renzi eleggerebbe circa settanta parlamentari.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.