C'è ancora una speranza maggioritaria in questo quadro proporzionale. Il riformismo non può appiattirsi sul populismo

Francesco Clementi

Il punto non è elezioni sì o no (meglio sì) ma cosa può fare un leader riformista per prosciugare l’onda anti sistema senza cedere alle tentazioni trumpiste. Renzi, ma non solo. Un girotondo

In uno scenario, interno ed internazionale, di progressivo aumento del populismo, fatto di dissenso sociale, primitivo e semplicista, che vive di discorsi radicali, che si alimenta di emozioni collettive, che evoca sospetti, infonde dubbi e promuove provocazioni verbali, ogni progetto riformista rischia di perdere. Così tra semplicismo culturale, analfabetismo funzionale e forte sfiducia nelle élites e nelle istituzioni, il populismo cresce, a partire dagli Stati Uniti, a spese del riformismo. Eppure, il riformismo, che trova la sua forza nella concreta efficacia delle risposte ai problemi, in genere, vince sulle vuote parole; perché è un’impostazione politica volta a modificare lo stato esistente a partire da un termine di riferimento: non un mero parolare di cambiamento. Tuttavia, se non si ha bene in testa quale è il parametro rispetto al quale misurare il proprio riformismo, i populismi non si battono. Anzi, si fanno crescere. Che fare, dunque, a maggior ragione in una logica proporzionale? Da un lato, tornare all’essenziale e ripartire dai fondamentali, ossia la concretezza dei problemi e la consapevolezza che nasce dall’ascolto, basato su vero radicamento territoriale. Con coraggio maggiore. E dall’altro, comportarsi come se si fosse comunque in una logica maggioritaria, non accettando lo schema delle tribù – i miei elettori – ma ricercare sempre tutti gli elettori, perché il tempo delle appartenenze rigide, nonostante apparenti ritorni al passato, non torneranno.

 

Francesco Clementi è professore di Diritto pubblico comparato presso il dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Perugia

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