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Un vaffa day contro i populisti: andare al voto subito, senza coalizioni e strane alleanze

Claudio Cerasa

Se Renzi vuole rimettere insieme un progetto riformista costringa la sinistra non trumpista-shampista a restare nel suo partito e vada da solo alle elezioni. Vale per lui e in fondo anche per il Cav

La situazione è grave, ma non ancora seria. Lo avete sentito anche voi, no? Dopo aver distrutto Prodi, abbattuto Veltroni, sabotato Bersani, sabato scorso Massimo D’Alema ha scelto di scendere in campo per dare lezioni al mondo su cosa debba fare la sinistra (a) per restare unita (b) per costruire un nuovo Consenso con la C maiuscola. Ci sarebbe da piangere se non ci fosse da ridere (l’ultima volta che D’Alema si è misurato con il Consenso ha perso le primarie in Puglia con Ivan Scalfarotto). Ma la discesa in campo del leader Massimo, con il suo sobrio invito a unire le forze di centrosinistra per creare un movimento alternativo al Pd capace di mettere insieme il meglio dei trumpisti-shampisti della gauche, ci permette di ragionare su una prospettiva importante che riguarda il futuro della sinistra italiana.

 

D’Alema ha ragione a ribadire che fuori dal Pd esiste uno spazio politico che si può presidiare e a questo punto della storia – dopo il trauma del referendum – una micro scissione del Pd è forse inevitabile. Senza voler mettere in discussione la capacità di D’Alema di mobilitare elettori, se il Partito democratico riuscirà a muoversi compatto – e a esaudire il sogno non impossibile del suo segretario di andare a votare presto – il tema di cosa fare con la sinistra che si trova fuori dal Pd ci sarà eccome. Così come per il centrodestra berlusconiano ci sarà il tema di cosa fare, in caso di voto anticipato, con il fronte neopopulista, sovranista e anti europeista rappresentato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Scissione o non scissione la questione è chiara: come comportarsi con i radicalismi e cialtronismi di sinistra e di destra quando si andrà a votare?

 

Detta in modo più esplicito: può esistere davvero un punto di contatto tra una sinistra che crede che investire sulla globalizzazione sia il modo migliore per sconfiggere la povertà nel mondo e una sinistra che crede che sia invece la globalizzazione a causare la povertà nel mondo? E poi, dall’altra parte: può esistere davvero un punto di contatto tra una destra europeista, mercatista e anti protezionista e una destra anti europeista, anti mercatista, anti euro che al fondo sogna di aiutare il Movimento 5 stelle a esportare in Italia il modello Ecuador? Con tutto il rispetto, la risposta è no.

 

Vale per il Pd con le frattaglie della sinistra italiana. Vale per Forza Italia con le frattaglie del populismo all’amatriciana. In questa fase della vita pubblica, il tema delle coalizioni non è un dettaglio del dibattito politico del nostro paese. In presenza di una forte spinta populista in tutti i grandi paesi europei, Italia compresa, cercare di disinnescare il populismo alleandosi con dei surrogati dei populisti è il modo migliore per regalare voti ai populisti e far perdere così credibilità ai partiti che potrebbero combatterli sia da destra sia da sinistra. Nessuno sa cosa succederà nelle prossime settimane con la legge elettorale ma tutti gli indizi ci dicono che non esiste un’alternativa alla legge disegnata dalla Consulta, che in modo plastico e formidabile ha recepito perfettamente il messaggio contenuto nell’ondata popolare contro il referendum costituzionale (niente maggioritario, ritorno al proporzionale, fine dei governi scelti seppure indirettamente dagli elettori e di conseguenza fine delle coalizioni utili a sostenere un candidato alla presidenza del Consiglio). Gli indizi ci dicono questo perché la riforma che il Pd potrebbe votare per correggere la sentenza della Consulta è il Mattarellum ma Forza Italia non lo vuole, i 5 stelle non ne parliamo. Ci dicono questo perché la legge che il Pd potrebbe votare per tentare un ultimo e disperato slancio maggioritario coincide con un’estensione dell’Italicum al Senato ma Forza Italia non la vuole, Alfano non ne parliamo e perderete tempo con Grillo per fare una legge elettorale è come sperare che il Palermo non prenda un gol a partita o che Michele Emiliano legga gli statuti del Pd prima di parlare: dunque che senso ha?

Nonostante la grancassa mediatica, le possibilità che il partito della omogeneità-tà-tà riesca a modificare la legge elettorale sono piccole e marginali e a meno di sorprese che non ci saranno quando si andrà a votare lo si farà con la legge che abbiamo oggi: proporzionale alla Camera (con premio di maggioranza per la lista di chi arriva al 40 per cento), proporzionale al Senato (con possibilità per i piccoli partiti di fare coalizioni per evitare di dover arrivare all’8 per cento su base regionale per entrare a Palazzo Madama).

 

Nel Pd forse si esagera quando si dice che (linea Orfini) “il proporzionale può essere lo strumento con cui meglio si esprime la vocazione maggioritaria”. Oggi, si sa, non è più tempo di vocazioni maggioritarie, non è più tempo di leader carismatici, il passaggio dalla possibile politica a colori al governo in bianco e nero non prevede più la presenza di leader in 3D e il futuro, esito naturale del referendum del 4 dicembre, è tutto in mano alle correnti dei partiti, ai caminetti delle segreterie, ai parenti del Cnel. Ma non è detto che, pur in uno scenario meravigliosamente suicida da Prima Repubblica, siano del tutto sparite le possibilità che il Pd si presenti come partito trasversale capace di raccogliere idee diverse nel segno della modernizzazione del paese.

 

Questo non significa che per Renzi sia importante non avere più la sinistra tra le scatole (un Bersani è sempre meglio averlo dentro al proprio partito che fuori). Significa piuttosto il contrario: un segretario alimenta una scissione se crea le condizioni per far nascere un partito al suo fianco (per esempio introducendo il premio alla coalizione e non più alla lista) e la presenza di un proporzionale puro (senza alleati alle calcagna) potrebbe aiutare il Pd (e a suo modo Forza Italia) a costruire un nuovo rapporto di forza con i pezzi di società che si è scelto di rappresentare.

 

Le camicie bianche indossate allegramente nel settembre del 2014 da Matteo Renzi, Manuel Valls, Pedro Sánchez e Diederik Samsom oggi non se la passano bene ed è tutto da dimostrare che la sinistra populista tolga ossigeno alla destra populista come hanno pensato in Inghilterra gli elettori che hanno votato Corbyn alla guida del Labour e come hanno pensato gli elettori francesi votando Hamon alla guida del Partito socialista. Ma se l’ultimo dei socialisti rimasto parzialmente in piedi (Renzi) vuole avere qualche speranza di rimettere insieme un progetto riformista ha solo un modo per non lasciare il paese a chi promette di trasformare rapidamente l’Italia nella succursale dell’Ecuador: organizzare un grande vaffa day contro i populisti, costringere la sinistra non trumpista-shampista a restare nel suo partito e andare da soli e rapidamente alle elezioni. Al voto subito. Senza coalizioni. Senza papocchi. Senza alleanze. Vale per Renzi e in fondo vale anche per il Cav.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.