Matteo Renzi all'assemblea degli amministratori Pd (Foto LaPresse)

Così è partita la marcia (un po' zoppa) di Renzi verso le urne anticipate

Salvatore Merlo

La Commissione europea e la manovra economica “da evitare”, il Quirinale silente e le correnti affamate del Pd. Le mosse di Padoan, i sospetti

Roma. E c’è l’Europa da tenere sotto controllo, con la manovra, le correzioni da aggirare, in qualche modo, costi quel che costi; e poi c’è il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che con il suo stile palermitano (meglio una parola in meno che una parola in più) rimane per lui insondabile, la Pizia del Quirinale, un mistero muto le cui briciole di frasi vanno continuamente interpretate come un tempo si faceva con gli oracoli; e c’è infine il partito, il Pd rinserrato in uno spazio gonfio di tensione, con le sue correnti, i capetti e gli squaletti che nuotano nei gorghi del piccolo potere d’apparato, tutti quegli uomini con i quali è necessario scendere a patti, concedendo, negoziando, ricorrendo alle solite vecchissime regole del gioco: contrattazione e baratto, ovvero la promessa d’una manciata di posti in lista in cambio della pace interna. E insomma le manovre di avvicinamento alle elezioni anticipate, “a giugno o forse prima”, dicono adesso amici ed esegeti di Matteo Renzi, sono complicate, un groviglio di variabili il cui scioglimento richiede pazienza frammista ad astuzia levantina: il percorso si fa pericoloso e imprevedibile (e le strade dell’imprevedibile, si sa, portano lontano).

 

Renzi vuole votare, lo dice e lo hanno capito tutti, ma come sganciarsi in scioltezza dal governo di Paolo Gentiloni? Sembra che Bruxelles possa impuntarsi, e con vigore di coltello, nel richiedere una manovra correttiva, da circa tre miliardi, all’Italia e al suo governo. E come può Renzi presentarsi alle elezioni dopo aver avallato, da segretario del Pd, una stangata di tagli e tasse? “Non posso, non voglio, non devo”, è all’incirca il pensiero dell’ex presidente del Consiglio.

 

E insomma il pericolo, forse a detrimento di tutto il resto, è diventato la dimensione elettiva di quest’uomo sconfitto al referendum e di conseguenza precipitato, improvvisamente, lui che era tutto scatti e decisionismo, in un campo da gioco nuovo e per lui spiazzante, in cui sono tornati, da un fondo remoto della politica italiana, regole ed equilibri quasi primorepubblicani. E se infatti è alla Prima Repubblica che fa pensare la frammentazione dei partiti, e persino il sistema elettorale che tutti vagheggiano, è inevitabile che – come nella prima Repubblica – ritornino con prepotenza anche le correnti (ammesso che fossero mai sparite), cioè quel sistema di partiti dentro i partiti che per Renzi prende soprattutto le sembianze barbute d’un gran navigatore di Palazzo: Dario Franceschini.

 

Così, se nel Pd si agitano in superficie Massimo D’Alema e Michele Emiliano, Roberto Speranza e Pier Luigi Bersani, ciascuno con le sue richieste più o meno esplicite, è sul fondo limaccioso del mare democratico che invece nuota silenzioso il più affamato e pericoloso dei pesci, l’uomo che è sopravvissuto a tutti i rivolgimenti della martoriata sinistra italiana mantenendo intatto il suo potere di condizionamento e d’interdizione, impalpabile eppure solidissimo, vero capo dei gruppo parlamentari del Pd (esprime entrambi i capigruppo, di Camera e Senato). E insomma non si va a votare, non si sciolgono le Camere e non si controllano deputati e senatori senza Franceschini. Così, come prima grana, il segretario del partito se lo coccola, e sa che dovrà concedergli tutto, se vuole ottenere le elezioni. E cosa vuole Franceschini in cambio? Ma quello che ha sempre voluto, sin dall’inizio dei tempi, ovviamente: eleggere in Parlamento il maggior numero possibile di suoi uomini, in modo tale da controllare il partito, ancora una volta, come sempre, anche nella prossima legislatura.

 

E già così s’intuisce quanto possa essere penosa, e difficile, per uno che rottamava e spicciava gli affari con la rapidità di un tweet, questa marcia renziana verso le elezioni anticipate. Ma a complicare ulteriormente le cose, si diceva, c’è anche il Quirinale, le cui intenzioni sono tendenzialmente continuiste, e comunque accordate – nella loro silente impenetrabilità – a relazioni e princìpi che sfuggono all’universo politico (e persino semantico) in cui si muove Renzi. Mattarella vuole spingere la legislatura un passo più in là. E che farebbe il capo dello stato se – come è possibile – la Commissione europea dovesse pretendere una manovra correttiva dall’Italia, quell’aggiustamento da tre miliardi che Renzi vuole assolutamente evitare perché sarebbe un danno politico-elettorale forse catastrofico? Asseconderebbe Renzi, o il principio costituzionale che vincola al rispetto dei trattati internazionali? “I sistemi di calcolo del debito fanno riferimento a parametri superati”, ha detto Graziano Delrio, che esprime gli umori del suo più giovane amico fiorentino. Una posizione che non corrisponde, pare, a quella del presidente della Repubblica. E nemmeno, così sembra, a quella del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che in Europa è accreditato, conosciuto, e che forse coltiva negli ambienti dell’Unione europea anche qualche ambizione personale.

 

S’introduce così il terzo elemento che complica la vita di Renzi, la sua manovra di avvicinamento alle elezioni, e che rivela anche quanto l’ex presidente del Consiglio sia seduto non sugli allori ma sulle puntine da disegno: se la correzione si facesse in questa legislatura, per Renzi sarebbe un disastro, e dovrebbe evitare le elezioni, e insomma cambiare strategia. “Un’ipotesi impensabile”, dicono infatti i suoi amici, che con l’ottimismo della volontà contano di trascinare dalla loro parte il Quirinale, Padoan, e pure la Commissione europea che tuttavia, imbustata nelle rigidità di una tesi rigorista, minaccia all’incirca una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia. “Ma questa settimana Padoan risponderà alla loro lettera. E se non cercano l’incidente, vedrete che la cosa è risolvibilissima”, dice al Foglio uno dei consiglieri economici di Renzi. E se non si risolvesse con la lettera di Padoan? “Se non si trova l’accordo tecnico, Gentiloni andrà a parlare con Juncker. È tutta politica. Si risolve. Non c’è bisogno di una manovra correttiva, adesso. Sono sufficienti degli aggiustamenti contabili nel Documento di economia e finanza”. Sarà.

 

Ma gli uomini che hanno più rapporti con la Commissione guidata da Juncker, sostengono che la manovra correttiva è invece inevitabile e che il sistema italiano darebbe un pericoloso segnale di debolezza e di scarsa credibilità se si rifiutasse di vararla per ragioni elettorali. A meno che Renzi, in questa sua complicatissima corsa verso le elezioni anticipate, non abbia messo in conto di abbandonare il ruolo di leader europeista e ben accetto dall’establishment. “L’Europa si mette a mandare letterine dicendo che noi abbiamo questo grande problema dello 0,2, che è un prefisso telefonico”, ha detto domenica scorsa. E poi ieri: “Fuori dal politicamente corretto si può sommessamente dire che alcuni leader europei che oggi criticano Trump sono gli stessi che non hanno mosso un dito per aiutare l’Italia davanti ai problemi dell’immigrazione?”. E forse queste parole sono un indizio.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.