Matteo Renzi (Foto LaPresse)

Deputato pd renziano spiega quello che Renzi non può dire sul perché bisogna andare a votare subito

Dario Parrini

Parrini: "Adesso il partito della melina non ha più un appiglio normativo a cui attaccarsi" 

Il ballottaggio è caduto. Perché? Perché è una soluzione praticabile in un Parlamento a fiducia monocamerale. Mentre è difficilmente sostenibile in un Parlamento che dopo il No al referendum è rimasto un organo formato da due camere dotate entrambe del potere di fiducia ed elette da corpi elettorali differenziati. Per questo era prevedibile che, alla luce del risultato del 4 dicembre, il ballottaggio venisse abrogato dalla Consulta. E così è andata.

 

Sopravvive però il premio di maggioranza: chi arriva al 40% dei voti prende alla Camera il 55% dei seggi (e, in virtù dell'effetto selettivo dell'alta soglia di sbarramento regionale, l'8%, può arrivare a 158 seggi anche al Senato). Abbiamo quindi due leggi elettorali omogenee e immediatamente applicabili, anche se non uguali. Del resto, dal 1948 al 2013, per Camera e Senato si è sempre votato con leggi elettorali omogenee ma tutt'altro che uguali (dal 1948 al 1992 si è votato con voto di lista e preferenze alla Camera, e con i collegi uninominali proporzionali al Senato; col Mattarellum, dal 1994 al 2001, la scheda per il voto nei collegi uninominali era integrata alla Camera da una seconda scheda per il voto su liste bloccate, mentre al Senato c'era una sola scheda per il voto nei collegi uninominali; nel 2006, 2008 e 2013 si è votato alla Camera con un sistema e al Senato con un altro, simile ma non identico).

 

La questione su cui dovrebbero riflettere tutti coloro che a caldo tendono a fare valutazioni superficiali è la seguente: esiste un sistema elettorale a un turno (basato su collegi uninominali o meno) che, nell'attuale contesto italiano di distribuzione tripolare dei consensi, comporti la certezza o un'elevata probabilità che ottenga la maggioranza assoluta dei seggi chi prende meno del 40% dei voti? Non esiste.

 

Da ciò discende una conclusione semplice: leggi migliori di quelle risultanti dalle sentenze della Corte sono immaginabili (per esempio a me il collegio uninominale del Mattarellum piace più del voto di lista). Ma, se siamo vincolati a votare in un turno solo, non esistono leggi che diano la “certezza” o la “elevata probabilità” di un effetto maggioritario superiore a quello prodotto dalle norme che da oggi abbiamo. È sulla base di questa analisi fattuale che si può dire che, se in tempi rapidi non si raggiunge in Parlamento un accordo su soluzioni migliori (per noi il Mattarellum è la soluzione più efficace possibile e la si può varare in poche settimane), niente impedisce di votare con le norme che da oggi sono in campo.

 

Norme che tra l'altro, prevedendo una soglia di premio alta ma raggiungibile, indurrebbero un potente “effetto voto utile” e un'oggettiva spinta a formare coalizioni, anche se mono-simbolo. Il partito della melina non ha più un appiglio normativo a cui attaccarsi. Chi non vuol votare in tempi brevi deve dire chiaramente “non voglio andare a votare”. Non può più dire “non si può andare a votare”.

 

E perché è importante andare a votare presto? Perché è nell'interesse dell'Italia, non di un partito o di una persona. La legislatura è politicamente finita il 4 dicembre. In queste settimane possiamo e dobbiamo affrontare le principali emergenze (banche, terremoto, misure contro la povertà, riforma del processo penale). Assolto questo compito, è meglio che le altre scelte di fondo, a partire dalla prossima legge di bilancio, siano compiute da un governo legittimato da nuove elezioni e con davanti non pochi mesi ma cinque anni di lavoro.

 

E comunque, quale che sia la data delle elezioni, il primo dovere che ha di fronte a sé il Pd è chiaro: avanzare al Paese una proposta di governo convincente. Dire cosa vuol fare per rafforzare la crescita e per combattere meglio le disuguaglianze. Come sempre, è bene che al centro del dibattito stiano i programmi.