Mario Segni

Segni ci spiega perché Renzi può ancora fermare il proporzionale

David Allegranti

Appello al segretario pd per una chiamata alle armi

Roma. Pare impossibile, quasi, farsene una ragione. Eppure l’epoca del proporzionalmente corretto sta per arrivare, anzi, per tornare, come l’era del cinghiale bianco di Battiato. Il girotondo fogliante di opinioni prosegue, dopo la guida galattica per maggioritari delusi di ieri. “Come la vedo? Non male: malissimo”, dice al Foglio Mario Segni, una vita in difesa del sistema maggioritario. “Perché così facciamo un salto indietro di quasi trent’anni, alla fine degli anni Ottanta. Con la differenza però: che non ci sono più i grandi partiti come prima. Tutti peraltro si illudono ricrearli, quei partiti, ma in realtà ci sarà una spinta alla disgregazione che sarà fortissima e ognuno farà un suo partitello. Saremo costretti dunque alle grandi o anche alle grandissime coalizioni”. Sia chiaro, aggiunge il professor Segni, “io non sono contrario in linea di principio a una grande coalizione; anche l’Inghilterra la fece in tempo di guerra. Le grandi coalizioni sono possibili anche con il maggioritario. Quello che mi sembra terribile è che, appunto, il nostro proporzionale ci obbligherà a grandi o grandissime coalizioni e sarà una iattura. Perché ci condanna a una formula politica che di per sé è difficilissima e che in Italia ha dato risultati scandenti. Questo, bisogna dirlo, è un colpo alla fine del governo forte”.

 

Segni si era schierato per il sì al referendum costituzionale, senza nascondere critiche alla riforma. Motivò così il suo Sì, in un’intervista al Corriere della Sera: “Non si vota solo per una riforma costituzionale. Sono in ballo due sistemi molto diversi: da un lato, il binomio riforma-Italicum ci dà la stabilità di cui abbiamo bisogno; dall’altro, si tornerebbe al proporzionale che è garanzia di perenne ingovernabilità. Ci riporterebbe a prima del 1993, all’Italia che con quel sistema ha visto esplodere il debito pubblico”, disse Segni. Non mancavano appunto critiche alla riforma: “E’ stato sbagliato concentrare quasi tutta l’attenzione sul tentativo di superare il bicameralismo paritario. Non è questo il problema più grosso. In secondo luogo, allora era meglio abolire del tutto il Senato. Terzo, è stato un errore pensare di far diventare senatori i consiglieri regionali, espressione di quella parte della politica che ha fatto più danni”. Il ritorno al proporzionale, dice oggi Segni al Foglio, “è dunque l’effetto diretto del risultato del 4 dicembre. Io però continuo a pensare che l’unico che può arginare la spinta verso il proporzionale sia proprio Renzi. Anche adesso”. Ma non è fuori dai giochi? “E’ pur sempre il segretario del Pd. Ritengo che Renzi sia l’unico che possa fare una battaglia di grande rilievo per la governabilità e per il maggioritario, quindi per un governo scelto dai cittadini. Ritengo che, grazie alla carica di segretario, farla sia in suo dovere, non solo in suo potere. Dico di più: faccio un appello a Renzi per una chiamata alle armi”.

 

Intanto Renzi ha aperto al Mattarellum. Che gliene pare? “Come mossa di partenza va bene. La seconda mossa invece sarebbe vincolare il partito a questa scelta e indire un congresso proprio su questo punto”. Ma secondo lei che cosa può nascere dal dialogo Renzi-Berlusconi sulla legge elettorale? “Può nascere solo il proporzionale; è chiaro che Berlusconi lo vuole, lo ha sempre voluto”. Qualcuno spera che con il proporzionale, i partiti riacquistino un ruolo, un significato, persino un senso. Il problema, come già annotava Angelo Panebianco sul Foglio ieri, è che il proporzionale funziona solo se ci sono partiti forti, come avviene in Germania. Rianimare con il proporzionale i partiti, ormai in crisi di iscritti e di fiducia, è una pia illusione, aggiunge Segni. “La storia cammina in senso opposto: i partiti per come li immaginiamo appartenevano a una società diversa, non globalizzata non informatizzata. Non appartenevano a una società liquida come oggi. Chi si illude che il ritorno al proporzionale reifichi i vecchi partiti si sbaglia. Anche perché, peraltro, la crisi era già presente allora, negli anni Novanta”. 

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.