Matteo Salvini (foto LaPresse)

Come Salvini ha rivoltato (e rinnegato) la Lega di Bossi e Maroni

Giuliano Cazzola

Un populista è costretto a cavalcare tutte le tigri, a sparare su ogni Croce rossa che gli passa a tiro

Anche al suo caso si potrebbe adattare il titolo di una vecchia commedia: “L’importanza di chiamarsi Matteo”. Ma se al primo Matteo (Renzi) è riuscito solo in parte di cambiare il partito di cui aveva espugnato il quartier generale con un colpo di mano fortunato, al secondo Matteo (Salvini) è andata sicuramente meglio. Nel giro di pochi anni ha rivoltato la Lega come un calzino, emarginando (o addirittura cacciando) i ‘’padri fondatori’’ e, soprattutto, portando a compimento una vera e propria mutazione genetica. La Lega di Umberto Bossi voleva essere il ‘’difensore della fede’’ del Nord umiliato, tartassato e vilipeso da un’Italia matrigna a forte condizionamento meridionale. Roberto Maroni, infatti, diceva sempre che il suo partito non era né di destra né di sinistra perché la sua era una vocazione di carattere territoriale. Quella visione ebbe anche una certa fortuna: tutti i partiti, a cominciare dalle forze di centro sinistra, scoprirono di essere federalisti, impegnando per decenni il paese in un dibattito politico e in iniziative legislative (sul c.d. federalismo fiscale) che non arrivarono mai a capo di nulla, salvo che per la sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione.

 

Ma quella Lega, a suo modo, era anche europeista. Anzi, nelle sue velleità secessioniste il punto di riferimento (e di sbocco) era proprio l’Unione europea, di cui il Nord virtuoso sarebbe stato, a buon diritto, parte integrante. Oggi la Lega di Salvini è un partito nazionale, collocato sull’estrema destra del quadro politico, lepenista, sovranista, sciovinista, antieuropeista e pronto a correre l’avventura dell’uscita dall’euro. In una parola: populista. L’unico elemento di continuità con gli umori della Lega ancien régime è l’ostilità nei confronti dell’immigrazione, tanto più adesso che è divenuta un’emergenza, reale anche se esagerata a bella posta. Ovviamente, non si diventa populisti in astratto. Per potersi fregiare di questa “commenda della vergogna” è necessario compiere delle precise scelte politiche, mettersi in concorrenza con il M5S; e, da ultimo, diventare, nei fatti, uno stretto alleato della Cgil (ma la confederazione di Susanna Camusso si chiede mai il perché di queste scomode convergenze?). Non a caso – dopo l’alleanza nel referendum costituzionale - Matteo Salvini è stato uno dei primi a polemizzare con la Consulta per la bocciatura del quesito sull’articolo 18. Un populista è costretto a cavalcare tutte le tigri, a sparare su ogni Croce rossa che gli passa a tiro.

 

Eppure la Lega (come del resto il M5S) dichiara di voler difendere le piccole imprese fino ad abolire gli studi di settore e di esonerarle dal pagare le tasse. Tuttavia, sarebbe stata pronta e disponibile (al pari dei "grillini") ad appoggiare un’iniziativa che avrebbe consegnato ai giudici la gestione del personale nelle microimprese. Quanto al passato, fu Roberto Maroni, da titolare del Lavoro, a volere Marco Biagi al suo fianco e a chiedergli di redigere il Libro Bianco (definito ‘’limaccioso’’ da Sergio Cofferati). Fu Maroni stesso a tentare una revisione sperimentale dell’articolo 18, contro la quale (pochi giorni dopo l’uccisione del prof. Biagi) manifestò la Cgil e milioni di lavoratori si recarono al Circo Massimo a farsi concionare – capelli scompigliati dal vento primaverile – dal Cinese.

 

Maroni fu anche l’ideatore del c.d. scalone: un balzo di tre anni in un colpo solo per l’età pensionabile di anzianità. E la riforma Fornero? Quella che Salvini vorrebbe bruciare in piazza del Popolo (con la Cgil che gli passa torcia)? Le misure principali sono un’eredità del governo di centro destra con la partecipazione della Lega. A quel governo (Giulio Tremonti era il beniamino di Bossi) sono dovuti l’avvio della parificazione dell’età pensionabile di vecchiaia delle lavoratrici rispetto a quella dei lavoratori (attuata a marce forzate nel pubblico impiego su impulso sanzionatorio della Ue), l’introduzione della finestra mobile di 12 mesi (18 per gli autonomi) tra la maturazione e la possibilità d’esercizio del diritto alla quiescenza, nonchè gli incrementi periodici dell’età pensionabile derivanti dall’aggancio automatico all’attesa di vita. 

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