Matteo Renzi con Paolo Gentiloni (foto LaPresse)

Buone ragioni per non votare subito

Claudio Cerasa

Il passaggio dalla rottamazione alla ricostruzione non può essere consumato come una sveltina. Prendere tempo, stavolta, non è perdere tempo e Renzi avrebbe solo da guadagnare a reagire senza fretta alla disfatta referendaria

Al ritorno dalle vacanze, il calendario di Matteo Renzi sembra essere estremamente chiaro: aspettare la sentenza della Consulta sull’Italicum il 24 gennaio; augurarsi che le correzioni alla legge elettorale siano, come si dice, autoapplicative; tentare senza forzare di riformare la legge elettorale; rimettere a punto la segreteria del Pd; utilizzare la prima finestra elettorale disponibile per andare al voto; evitare la scissione del partito attraverso una sapiente organizzazione delle liste elettorali. Sintesi estrema del progetto: il voto immediato (massimo 11 giugno) è necessario per trasformare i tredici milioni di voti incassati dal Sì al referendum del quattro dicembre in voti utili alle elezioni politiche. Cercare di capire se il progetto funzionerà, ovvero se Renzi riuscirà a votare presto nonostante la presenza nei gruppi del Pd di un fronte robusto e trasversale di parlamentari convinti che sia necessario arrivare al 2018, è interessante fino a un certo punto ed è difficile immaginare un altro governo qualora Renzi dovesse costringere Gentiloni alle dimissioni.

 

Il punto, dunque, non è tanto se capiterà ciò che Renzi ha in programma. Il punto, a guardar bene, è se il disegno di Renzi sia corretto per provare a rilanciare un progetto riformista che è stato vigorosamente preso a bastonate un mese fa ma che potrebbe avere ancora un suo spazio nel paese. Sintesi estrema della questione: siamo sicuri che il delicato passaggio dalla rottamazione alla ricostruzione possa essere consumato così, come una sveltina? La risposta è no e proviamo a motivarla in modo semplice e lineare.

 

In questo momento in Italia non ci sono alternative alla leadership politica di Matteo Renzi. Berlusconi non è candidabile, purtroppo, e nonostante la sua oggettiva e progressiva riabilitazione politica non lo sarà nemmeno alle prossime elezioni. Matteo Salvini è candidabile, purtroppo, ma in tre anni di leadership leghista, oltre al fatto di aver trasformato il proprio partito nella costola involontaria del grillismo, si ricordano più le sconfitte che i successi – e basterebbe chiedere a Salvini quanti comuni capoluogo di provincia governa in Lombardia la Lega nord (zero) per chiudere qualsiasi discorso sull’altro Matteo. Il Movimento 5 stelle, che pure è il vincitore morale della partita referendaria, nel corso del 2017 darà infinite occasioni per mostrare la sua inadeguatezza di fronte a qualsiasi pratica di governo e l’esperienza della Raggi a Roma aiuterà a fare luce non solo sulla truffa costituzionale grillina ma anche sulla truffa politica della democrazia del clic, messa ieri in mutande persino dal signor nessuno Guy Verhofstadt. Può piacere o no, ma alternative a Renzi non ci sono e per questo è necessario giocare senza fretta ma con intelligenza la complicata partita della ricostruzione andando a votare a scadenza naturale della legislatura. In questo arco di tempo, un anno o poco più, il segretario del Pd può evitare di trasformare le elezioni politiche in una semplice e pericolosa rivincita del referendum e può tentare di fare quello che non ha fatto finora seguendo una delle migliori lezioni di Tony Blair: per ricostruire l’Italia bisogna avere un Pd riformato che sappia accompagnare una leadership carismatica e riformista nella lenta ricostruzione del paese e che possa permettere al segretario del partito di avere il tempo per sostituire la parola rottamazione con qualcosa di nuovo, di più forte.

 

Prendere tempo potrebbe essere inteso come un rischio inesorabile di perdere tempo e questo giornale ha sostenuto fin dal primo momento, dopo lo schiaffo al referendum, che un nuovo governo non sarebbe dovuto nascere e che il segretario del Pd avrebbe dovuto forzare la mano e votare subito con l’attuale legge elettorale. La scelta di sostenere un nuovo governo è stata sbagliata ma un conto era votare il giorno dopo un altro votare dopo aver fatto nascere un governo e a questo punto della storia l’errore potrebbe trasformarsi in un’opportunità politica: con il passaggio dall’uomo solo al comando all’uomo sodo al comando, Renzi ha un amico leale a Palazzo Chigi che in questa fase di passaggio potrebbe mettere al sicuro il renzismo valorizzandone le idee del leader del Pd e mettendole al riparo dai proiettili della propaganda anti renziana. E in questa parentesi forse breve ma comunque significativa di pace politica – alla quale per ragioni di opportunismo parteciperanno anche i nemici di Renzi, sperando che l’allungamento dei tempi della legislatura porti a un logoramento della leadership renziana – il segretario del Pd avrebbe l’occasione di costruire una campagna elettorale non incentrata sulle modifiche alla legge elettorale ma incentrata su una nuova proposta politica che sappia far tesoro di quello che è successo nell’ultimo mese: l’Italia del renzismo ha ancora spazio per raccogliere consensi ma senza prendersi il tempo giusto per passare dalla rottamazione alla ricostruzione – cercando un’alternativa che ancora non c’è all’Italia dei sindaci, bocciata per sempre dalla riforma costituzionale – rischia di fare un regalo all’accozzaglia.

 

Forse, per una volta, prendere tempo non significa perdere tempo. Meglio il 2018. No?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.