Marco Minniti con Paolo Gentiloni (foto LaPresse)

Perché il grande Risiko libico non è l'unico campo di battaglia di Minniti

Mario Sechi

Il ministro dell'Interno è il prodotto di nicchia di una sinistra law and order che vuole proteggere i confini senza diventare Chuck Norris

Minniti. Battezzato Domenico, chiamato Marco, scartavetrato in Calabria, levigato a Roma, educato al segreto, forse è il tipo giusto per trattare con i Tuareg. Il ministro dell’Interno sta preparando una missione in Libia, deve trovare un accordo per limitare le partenze di migranti. Minniti sa bene che il suo problema non è nella capitale di uno stato che non c’è, Tripoli, ma nel deserto, tra la Cirenaica e il Fezzan. Il dovere istituzionale dice che deve parlare con il presidente del governo onusiano, Fayez Serraj, ma il nome che pulsa nella sua testa lucida è un altro, quello del generale Khalifa Belqasim Haftar, il militare che in Libia ha un esercito e un consenso costruito con l’unica cosa in grado di tenere insieme uno stato che esiste solo sulla carta geografica: denaro e armi. La Libia per uno come Minniti è una battaglia a Risiko tra professionisti con la barba finta. Dentro c’è tutto: la geopolitica del petrolio, una biografia grande e tragica (Gheddafi), le milizie armate fino ai denti, il doppio gioco del deserto, l’Africa e il Mediterraneo come fronte dell’Italia, la storia che scorre con le migrazioni.

 

Minniti ha il phisyque du role? Forse. E’ il prodotto di nicchia di una sinistra law and order che vuole proteggere i confini senza diventare Chuck Norris, è stato l’eminenza grigia dei servizi segreti per anni, ascoltando Francesco Cossiga ha imparato che un trattato si scrive anche con le dittature, ma prima va onorato con una stretta di mano. Senza la fanfara, è andato a Tunisi, ha fatto tappa a La Valletta e ora studia lo sbarco in Libia. Che fare? Realpolitik. La strada di Minniti si divide tra Washington e Mosca. America: al Dipartimento di Stato arriverà Rex Tillerson, numero uno di ExxonMobil, un petroliere che conosce bene la Libia, tanto che fu lui nel 2007 a favorire lo scongelamento delle relazioni degli Stati Uniti con Gheddafi e prepare il terreno alla visita di Condoleezza Rice il 5 settembre del 2008. Russia: in uno dei setti grattacieli moscoviti (le Sette Sorelle, architettura da Gotham City) il ministro degli Esteri Serghei Lavrov il 27 novembre scorso ha ricevuto il generale Haftar, Mosca punta su chi ha i fucili. Parlare con Serraj, certo. Ma Haftar l’altro ieri in un’intervista al Corriere della Sera ha mandato un messaggio e un avviso all’Italia: “Noi siamo un paese di transito. Se il nostro esercito controllerà i nostri confini meridionali il problema si ridurrà per tutti. E ciò vale anche per la questione degli impianti energetici tanto cari all’Italia. Sarei ben contento di parlarne con i dirigenti dell’Eni”.

 

Senza Haftar, i trattati sono carta muta. Lui lo sa e conta sulle relazioni dei nostri 007 per lavorare sul doppio binario: non mollare Serraj e rassicurare Haftar, la cintura e la bretella della nostra diplomazia nel deserto libico. Se cade la bretella (Serraj) resta la cintura (Haftar). La Libia non è una nazione, è famiglia, clan, tribù. Grande è il caos libico, Serraj l’altro ieri ha annullato le nomine ministeriali fatte in sua assenza, mentre era in vacanza a Londra. Il governo dell’Onu è un ectoplasma. Sta in piedi, ma non cammina. E’ il Grande Gioco del Mediterraneo in cui è stato proiettato il piccolo Minniti. Ha studiato per anni, è rimasto dietro le quinte, ha coltivato il tacere come arte del potere, ha appeso al chiodo il mantello dell’uomo ombra, remotissima appare la stagione al governo con D’Alema, se è un renziano lo è in un salutare modo atipico, e adesso si trova sul palcoscenico di un paese in campagna elettorale permanente. Si gioca tutto. Per lui è un all-in. O prende tutto o chiude la carriera politica in prima fila. Il Viminale non è la poltrona per caso (Alfano) è la sua occasione.

 

L’avventura comincia con una sparatoria, mentre già scorrono i titoli d’apertura del film di Natale. La polizia nel cuore della notte a Sesto San Giovanni risponde al fuoco e uccide il terrorista di Berlino, Anis Amri. E’ un lampo, il destino gioca a dadi con la biografia di Minniti. Dall’oscurità del Palazzo, esce fuori un politico che parla brevemente, usa un linguaggio asciutto, senza fronzoli e mai la parola “io”. Da quel momento, le aspettative sull’operato del nuovo ministro sono altissime. Ha promesso – e lo farà – di presentare al Parlamento “una proposta organica sull’immigrazione”, ma anche in questo caso non gli basterà la carta, serve la stretta di mano, deve trovare la coesione politica su un tema ad alto voltaggio: convincere regioni e comuni a riaprire i Centri di identificazione e accoglienza, spiegare al centrosinistra che lo spirito umanitario non si dissolve ma si rafforza se si “rendono effettivi i respingimenti”, sminare la propaganda salvinista con i fatti di governo. Ha studiato Filosofia, Minniti, conosce la consolazione dei poeti latini, è figlio di un generale, sa che il suo deserto più grande da attraversare è in Italia. 

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