Processo compravendita senatori, Silvio Berlusconi imputato. Presenti in aula l’avvocato Ghedini, il pm Woodcock e Antonio Di Pietro costituitosi parte civile (foto LaPresse)

La libera stampa e il pm

Annalisa Chirico

Storia di come si possa facilmente finire davanti a un giudice, se si reca “dispiacere” a un magistrato. Il giornalista teme. Ma poi: “Chissenefrega, scrivo. Sono libera”

Un giornalista che decida di occuparsi di cronaca giudiziaria e non di sfilate modaiole non avrà il privilegio della tessera sconti presso le boutique griffate in via Montenapoleone. In compenso acquisirà dimestichezza con il “rito della consegna”. Blin blin, suona il campanello, chi è?, l’appuntato dei carabinieri, la signora Chirico è in casa? Apri il portone, lo accogli sull’uscio, firmi quel che è da firmare, ormai vi conoscete, lei come sta, si sieda pure cinque minuti, come va la vita di quartiere, i furti-maledetti-furti, eh sì per me la solita roba, come si chiama questo magistrato, no aspetti, mi dica da dove proviene la notifica, le dico subito di quale causa si tratta, certo che lei non molla, quante rogne, ma sì, gli inconvenienti del mestiere, a ciascuno il suo. Nessuna tessera sconti, plurimi procedimenti in giro per l’Italia. Toghe e carte bollate, carte bollate e toghe. Per qualche oscura ragione i politici puoi tacciarli di mafiosità senza batter ciglio, è diritto di cro-na-ca. Sul conto di Vincenzo De Luca puoi esprimere disinvoltamente i tuoi più intimi convincimenti, è diritto di cro-na-ca. Sulle bollenti notti di Arcore, manco a dirlo, la penna talebana si esercita orgiasticamente, è diritto di cro-na-ca. Sul culetto delle ex ministre, corredato da stralci d’intercettazioni rubate, talvolta inventate di sana pianta, puoi fantasticare ad alta voce. Il diritto di cronaca non conosce confine, per la libertà di stampa si vive o si muore. Ma se ti occupi di giudiziaria, se per qualche masochistica propensione hai scelto di frequentare le aule di tribunale, non avrai scampo. La libertà di stampa manca davvero in Italia? 

Il Giornalista Collettivo issa la bandiera dello scandalo se nel 2016 Reporters sans frontières classifica l’Italia al 77esimo posto per la libertà d’informazione, meglio di noi Burkina Faso e Botswana. Il Giornalista Collettivo indossa il bavaglio se il governo ventila l’ipotesi di norme più efficaci contro chi confonde la libertà di critica con la licenza di sputtanamento. Chi si alimenta di fango quotidiano non è disposto a rinunciarvi. La libertà di stampa, si diceva, c’è, ci mancherebbe, qui i giornalisti non li arrestano, piuttosto in Rai si moltiplicano come i pesci e se dopo sette anni decidi di spostare un direttore infuriano le polemiche, i giornali non li chiudono, al contrario ne nascono di nuovi, pur nella penuria di lettori, evviva la libertà, Roma non è Ankara, Gentiloni non è Erdogan, eppure c’è un fatto fastidioso e irritante. La libertà c’è, ci mancherebbe, ma ci sono tante cose di cui non si può parlare. Se sfidi il divieto diventi un bersaglio. “L’odierno attore è costretto al presente giudizio a causa di quanto dichiarato dal politologo Edward Luttwak nell’ambito dell’intervista rilasciata alla giornalista Annalisa Chirico pubblicata sul settimanale Panorama del 12 settembre 2012, nonché a causa di quanto affermato dalla giornalista Annalisa Chirico nel suo libro intitolato ‘Condannati preventivi’, edito da Rubbettino editore”. Che onore, Henry John Woodcock si occupa di me. In Italia capita che un libro finisca nel fascicolo di tre diversi procedimenti giudiziari.

Partiamo dal principio. L’intervista a Luttwak testé citata riguarda la difesa delle prerogative dell’allora Capo dello stato Giorgio Napolitano contro gli eccessi della procura palermitana nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa. Per Luttwak la richiesta di interrogare il presidente della Repubblica è inaudita, l’analista statunitense, profondo conoscitore del nostro paese, riflette sugli eccessi delle procure italiane, tema sul quale si è espresso pubblicamente a più riprese al punto che, sollecitato dalla cronista, egli si sofferma su un caso che in quei mesi gode di un notevole risalto mediatico, la P4. Si tratta dell’inchiesta su una presunta associazione a delinquere che per la prima volta nella storia repubblicana conduce all’arresto preventivo di un parlamentare per reati non di sangue. Nel criticare la condotta del magistrato in servizio presso la procura di Napoli, Luttwak usa toni severi e invoca una sanzione nei suoi confronti. Dopo la citazione in giudizio per l’intervistatrice, non per l’intervistato, costui spedisce al tribunale una missiva per rivendicare la paternità delle affermazioni, confermarne il contenuto e la “fedele riproduzione” ad opera della giornalista. La quale, oltre alla citazione in sede civile, money, insieme all’editore Mondadori, è pure destinataria di una querela per diffamazione a mezzo stampa. Vallo a spiegare all’amerikano. L’antefatto. Nell’atto di citazione si tira in ballo una visita nel carcere di Poggioreale, ascoltate bene, che la convenuta realizza nell’ottobre 2011, oltre un anno prima della pubblicazione del libro. Non si tratta invero di una scoperta strabiliante dal momento che è la stessa convenuta a raccontare nel libro di aver tratto spunto da quell’esperienza per la stesura di un pamphlet sulle storture e i nodi irrisolti della giustizia italiana. Nelle oltre 150 pagine di “Condannati preventivi - Le manette facili di uno stato fuorilegge” si raccontano quindici storie di malagiustizia, il caso P4 occupa una decina di cartelle.

Il libro, edito da una piccola ma prestigiosa casa editrice, Rubbettino, vende poco più di un migliaio di copie, ma è valorizzato da autorevoli recensioni sui principali quotidiani, dal Corriere della Sera alla Repubblica. Paolo Mieli lo presenta in più di un’occasione, alla Luiss interviene Giuliano Amato, Marco Pannella ne tesse le lodi in quella che sarà una delle sue ultime apparizioni alla Camera dei deputati. All’epoca della visita a Poggioreale chi scrive è una 25enne fresca di laurea magistrale in Scienze politiche e relazioni internazionali, con un master in European studies e un’esperienza di lavoro al Parlamento europeo (nello staff di Pannella e Marco Cappato), già fondatrice e segretaria del movimento giovanile della galassia radicale, già attivista immortalata in decine di cortei e sit-in per la giustizia giusta e i diritti dei detenuti, con più di una dozzina di prigioni italiane visitate al seguito di parlamentari radicali e non (recidiva!). Sono entrata negli istituti di pena fin quando la legge ha consentito ai parlamentari di introdurre con sé collaboratori anche non contrattualizzati. Nell’estate 2011, dopo la laurea, avvio una collaborazione con un parlamentare pugliese, della mia stessa città natale, responsabile dell’Ordinamento penitenziario del Pdl. Nel corso della visita, della durata di un paio d’ore, tra i vari bracci del carcere, il deputato si trattiene alcuni minuti con il collega di partito, l’onorevole Alfonso Papa, indagato eccellente dell’inchiesta P4. Io stento a riconoscerlo, non l’ho mai incontrato prima in vita mia e le immagini che inondano quotidiani e telegiornali sono assai diverse da quella sagoma di uomo in pigiama, dimagrito e barbuto.

Poggioreale è una delle prigioni più antiche e decadenti d’Italia, ricordo ancora la cella con almeno dieci detenuti, stipati gli uni sugli altri, le teste che sbucano da non si sa dove, io mi sforzo di contarle tra i letti a castello, quel che più mi colpisce è il riflesso vigile di alcuni che indietreggiano non appena un agente penitenziario, sempre lo stesso, appunta lo sguardo su di loro. Il carcere puzza di paura e intimidazione. Resta purtroppo inascoltato Leonardo Sciascia che proponeva per ogni neomagistrato, fresco di concorso, almeno tre giorni tra i detenuti comuni. “Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza”, così lo scrittore di Racalmuto nell’agosto 1983 sulle colonne del Corriere della Sera. All’epoca vanno di moda i blog, ancora non impazza la disintermediazione da social network, io ne curo uno dal titolo “Politicamente scorretta”, un diario online dove racconto iniziative e battaglie radicali, stati d’animo e tendenze, incontri e riflessioni sull’universo mondo. Oggi tutti i quotidiani ospitano quintalate di blog: per il giornale è traffico web in aggiunta, per cuochi soubrette e avvocati che si dilettano nella scrittura è pubblicità gratuita. Il mio blog, che non esiste più, sopravvive nelle carte di una terza inchiesta. Provenienza? Napule! La procura partenopea mi notifica – per mezzo del benedetto appuntato (la signora Chirico è in casa?) – un avviso di garanzia per falso ideologico: secondo l’accusa, avrei dichiarato il falso in un atto pubblico al fine di entrare in galera.

Al termine di approfondite indagini gli inquirenti non rinvengono traccia di una mia pregressa – e inesistente – conoscenza con il parlamentare galeotto e si spingono a sostenere che mi sarei introdotta con l’inganno nell’istituto penitenziario allo scopo di trarre linfa per la mia futura attività giornalistica. All’ingresso dell’istituto penitenziario io ho firmato un foglio con la seguente formula prestampata: “Dichiaro di non svolgere attività di GIORNALISTA”, sic. La procura mi contesta di essere una giornalista mascherata. Eppure all’epoca dei fatti io non ho MAI scritto su un giornale (neppure ricette di cucina), non ho MAI preso un soldo da un giornale, non possiedo né ho richiesto un tesserino giornalistico. Da un paio di mesi ho conseguito la laurea magistrale, ho collaborato con gli europarlamentari radicali a Bruxelles, nel frattempo ho vinto un dottorato di ricerca ma non ho ancora le idee chiare su che cosa farò da grande. Chiedo di essere ascoltata al pm Vincenzo Piscitelli che con Woodcock conduce inchieste fragorose, con lui indaga su Lavitola e i finanziamenti all’Avanti, su Finmeccanica e sulla P4. Durante il nostro cordiale incontro, Woodcock fa capolino nella stanza, probabilmente ignaro della mia presenza a quell’ora nell’ufficio a pochi passi dal suo. Ricapitoliamo: visito una prigione al seguito di un parlamentare, la procura competente apre un fascicolo per falso ideologico accusandomi di aver simulato una collaborazione fittizia e di essere in realtà una giornalista. Poiché non lo sono, né di nome né di fatto, s’ipotizza che avrei in animo di diventarlo, e la prova regina di ciò sarebbe la pubblicazione, a distanza di quattordici mesi, di un libello sulla malagiustizia. Libello nel quale oso criticare un’inchiesta condotta dalla medesima procura. Il pamphlet all’indice finisce in tre fascicoli: Napoli, Roma (giudizio civile) e Lamezia Terme (penale per diffamazione). Bingo. A parte la fortuita apparizione durante il mio colloquio volontario in procura, non ho mai incontrato il dottor Woodcock. Eppure avrei voluto manifestargli la mia sincera e assoluta buona fede.

Come facilmente riscontrabile, nelle poche pagine sull’inchiesta P4 non compare un solo termine di dileggio, né un aggettivo insultante o un’espressione men che rispettosa nei confronti del magistrato. Si tratta di un colloquio intervista con Alfonso Papa che all’epoca rappresenta un caso di enorme clamore mediatico, corteggiatissimo dai giornalisti di ogni testata. Io riporto alcuni dati di fatto, come la bocciatura giudiziaria del suggestivo teorema di una associazione denominata P4 o la dichiarata inammissibilità di una mole di intercettazioni captate irregolarmente (in assenza della previa autorizzazione della Camera d’appartenenza). Riporto ricordi e impressioni personali del protagonista che è un ex magistrato e si è formato pure lui a Napoli. Non è mistero che io nutra insuperabili dubbi sulla solidità delle principali contestazioni così come sulla necessità di una misura cautelare estrema come la detenzione in carcere. M’illudo di poter esprimere liberamente le mie personali opinioni e convincimenti esercitando il diritto di critica persino nei confronti di una toga. Centottantamila euro è la somma che Woodcock chiede a titolo di risarcimento dei danni patiti. Una “grande sofferenza morale”, unita al “patema d’animo sofferto e sofferente”, “gravissime ricadute nella sfera personale, familiare e professionale.

Nel 2014 Woodcock è promosso alla Direzione distrettuale antimafia, le sue imprese continuano ad affollare le cronache giudiziarie, è farina del suo sacco l’inchiesta Consip che lambisce i vertici delle forze armate e il ministro allo Sport Luca Lotti, la persona più vicina all’ex premier Matteo Renzi. Alcuni mesi or sono, un giornale mi assegna un pezzo sui 40 mila euro che lo stato italiano è obbligato a versare al principe Vittorio Emanuele di Savoia ingiustamente detenuto per sette giorni nel carcere di Potenza, accusatore Woodcock. “D’accordo, lo faccio”, apro il programma Word e per la prima volta da quando faccio questo mestiere (tre anni, non una eternità), mi pongo un dilemma: scrivo o non scrivo? Se rinfresco la memoria dei lettori sull’inchiesta dalla quale il principe è uscito completamente innocente, il pm potrebbe riaversene? Magari non mi conviene, magari è meglio evitare. L’esitazione dura pochi minuti, alla fine scrivo. La libertà prima che un diritto è un dovere, insegna Oriana Fallaci. La libertà di pensare esiste se pensi, la libertà di esprimersi esiste se ti esprimi, la mia libertà esiste se io la afferro. In quell’istante la assaporo come il respiro dell’anima che si libra al di sopra delle nostre miserie, del nostro ridicolo, delle carte bollate e del citofono che suona, blin blin, chi è?, l’appuntato. Chissenefrega, scrivo. Sono libera. Sono io. Quando siedi dinanzi a un giudice chiamato a dirimere una controversia tra te e un di lui collega, non dormi sonni tranquilli. Esistono però taluni magistrati impermeabili alle logiche corporative.

Si vedrà. Resta l’amara constatazione che in casi come questo, una volta azionata la causa civile, si potrebbe fare a meno di avviare contemporaneamente un giudizio in sede penale. Tanto più se il pomo della discordia è un libro. Al di là delle intenzioni personali, e sebbene non voluto, l’effetto intimidatorio nei confronti di chi per mestiere scrive è inevitabile. Quanto alla visita in carcere, se si potesse fare rewind, agirei esattamente come ho agito. Se all’epoca dei fatti avessi dichiarato di svolgere attività giornalistica, avrei asserito il falso. Il libro è approdato nelle librerie a distanza di oltre un anno, e il tempo, in tribunale, non dovrebbe essere una variabile ininfluente. In uno stato di diritto il processo alle intenzioni può avere cittadinanza? Applicando la trama dei sospetti e delle illazioni, non dovrebbe venire da chiedersi se certi magistrati, che indagano sempre sui potenti e imbastiscono inchieste clamorose con arresti eccellenti ed alterne fortune, agiscano in tal guisa al solo scopo di acquisire potere e popolarità? Per persuadere anche i più scettici dell’utilità della propria esistenza, l’Ordine dei giornalisti dovrebbe trovare il tempo di approfondire storie come quella che vi ho appena raccontato. La libertà di stampa non andrebbe invocata soltanto quando il governo paventa la sciagurata ipotesi di ritoccare la disciplina sulle intercettazioni. Sarebbe magnifico prestare attenzione al caso di giornalisti che non seguono le sfilate di moda (la mia è tutta invidia), non si fanno consegnare di soppiatto la chiavetta usb dal cancelliere compiacente, ma si sforzano piuttosto di elaborare analisi ragionate, e in quanto tali opinabili, sulle dinamiche processuali, persino in contrasto con la tesi della pubblica accusa. E non individuano in Barbara d’Urso, intervistatrice sprovvista di tesserino, una grave e seria minaccia per il futuro della categoria. L’autocensura, questo sì che è un pericolo. Blin blin, suona il campanello. Vado a rispondere.

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