Virginia Raggi (foto LaPresse)

Oltre Raggi

Marianna Rizzini

La “riduzione della dissonanza” e “il fascismo elettronico” del M5s spiegati dal sociologo Dal Lago

Roma. La figura del sindaco di Roma Virginia Raggi come Madonnina infilzata dai compagni (sorelle Taverna in testa) e come simbolo di rovesciamento dello specchio a Cinque stelle (specchio in cui non si riflette più l’immagine del “quanto siamo nuovi e puri” ma del “se continuiamo così perdiamo la faccia”. E poi: Beppe Grillo che apre le votazioni online per il “codice di comportamento” in “caso di coinvolgimento giudiziario” degli eletti, con accento sulla “presunzione di gravità” dell’eventuale dubbia condotta da sanzionare in privato (decide il Garante) e che, in attesa del responso della Sacra Rete (91 per cento di sì), propone una “giuria popolare per le balle dei media”. Tutto questo nei giorni in cui si discute di “bufale” e verità in Rete (anche sulla scia del discorso di Capodanno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dell’intervista al Financial Times di Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust, e dell’intervista del ministro della Giustizia Andrea Orlando al Foglio). E insomma, a guardare da fuori il M5s e il caso Roma, “c’è qualcosa che rimanda a quella che in psicologia verrebbe considerata ‘riduzione della dissonanza’ di fronte a una contraddizione, ma anche a qualcosa che io considero una sorta di fascismo elettronico”, dice Alessandro Dal Lago, sociologo e autore del saggio “Clic. Grillo, Casaleggio e la demagogia elettronica”, ed. Procopio), oltreché di “Mercanti d’aura” (con Serena Giordano, Il Mulino) e del pamphlet di de-costruzione del mito di “Gomorra” (e di Roberto Saviano) “Eroi di carta”, Manifestolibri).

 

E dunque Dal Lago, il professore (di sinistra-sinistra) che proprio per via dell’analisi sulla funzione “consolatoria” di “Gomorra”, a un certo punto, è diventato la bestia nera di alcuni ambienti “buoni&giusti”, dice che il Grillo ribattezzato “garantista” gli sembra meno garantista che mai, e che vedere Virginia Raggi insultata dalle sorelle Taverna gli fa pensare che il sindaco di Roma, “oltre a essere la vittima di circostanza” delle tensioni interne al M5s, “paghi il prezzo non soltanto di una certa inadeguatezza”, ma anche del non aver arginato per tempo i tentativi “di ingerenza” di alcuni ambienti della destra romana (e insomma sembra fargli quasi pena, il sindaco di Roma). Ma il punto non è tanto Virginia Raggi, dice Dal Lago, quanto il sostrato su cui poggia il caso Raggi stesso, e quel “moralismo becero, alimentato certo dal M5s, ma su terreno già fertile” (forse, ci si domanda, un terreno reso fertile da precedenti campagne manettare o da combattimenti a suon di post-it gialli e bavagli viola con pretesa di catarsi?). Al di là del rischio ricorrente di “strapotere giudiziario”, quello che a Dal Lago oggi “fa paura”, allargando lo guardo al campo della discussione su fake news e Rete, è la “grande illusione” collettiva cresciuta attorno a un web considerato panacea di tutti i mali politici (“la democrazia elettronica a me pare bufala straordinaria”, dice, convinto però che la soluzione “non sia mai la censura”).

 

Quali anticorpi attivare, allora? “Di anticorpi al momento non ne vedo. La manipolazione in Rete è non soltanto semantica ma anche pragmatica”. Pericolo numero uno: che un “pubblico non avvertito” possa credere alle bufale, sì, ma soprattutto che possa, dietro alle bufale, “credere a un’intera costruzione di mondo”. L’antidoto al “moralismo becero” e alla propagazione dello stesso non è “un’azione di controllo, anche non censoria, cui sembra alludere ora Pitruzzella come martedì Eco”, dice Dal Lago, ma che si possa applicare, intanto, un certo rigore in fase di ricezione “del mostro internettiano”, evitando magari di farlo diventare “mostro di carta” sui giornali, senza neanche poi pubblicare “la notizia di non colpevolezza”, e soprattutto che si possa avviare “una riflessione a monte sulla struttura dei partiti”. Dal Lago non pensa debbano essere sempre più destrutturati e liquidi, anzi. E “smettiamola con la storia del populismo figlio della rivolta contro le élite”, dice: “La Brexit, come idea, è arrivata da élite alternative, e tra le più spocchiose – gente che ha studiato a Eton. E Grillo non è forse uomo dell’élite nel senso di mondo dello spettacolo?”. 

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.