Matteo Renzi (foto LaPresse)

Renzi non si ritiri per sei anni come De Gaulle, ma faccia un suo partito

Lanfranco Pace

Differenze e analogie tra l’ex premier e il generale

Premesso che quello là era abbastanza magro, non si preoccupava troppo del girovita ed era alto sette centimetri meno di LeBron James e già questo obbligava gli altri a guardarlo dal basso verso l’alto come si fa con un’immagine votiva. Premesso che a quarant’anni aveva già combattuto una guerra mondiale, era stato ferito, fatto prigioniero, liberato e decorato, ma siccome era rimasto insoddisfatto e in attesa che scoppiasse la seconda se ne era andato a combattere a fianco della Polonia contro l’Armata rossa sovietica e a scrivere testi sulla guerra di movimento, che non sfuggirono all’attenzione di Rommel e Guderian. Premesso che per molto tempo attorno a lui non ci fu nessuno e quando ci fu qualcuno si trattò di gente come Mauriac e Malraux e Jean Moulin e Pompidou e Debré e Rueff e Chalandon, che il suo Luca Lotti se così si può dire fu Jacques Foccart, uomo dell’ombra e dei réseau africani, insomma premesso che il Generale Charles de Gaulle è stato una figura unica e irripetibile nella storia del suo paese e del secolo, c’è lo stesso nella sua vita e nelle sue opere qualcosa da cui anche un giovanotto nato sull’Arno e costretto a un periodo di convalescenza può trarre ispirazione, un po’ di conforto e qualche conferma. Per esempio che urge mettersi alle spalle tutte le critiche che gli hanno riversato addosso dopo la sconfitta perché bisogna farsi portare dalle onde e non curarsi della schiuma. Che non si viene mai sconfitti perché troppo arroganti, lui diceva di rispettare solo quelli che sapevano resistergli ma questi però non li tollerava. Che le decisioni prese non sono mai perfette ma è meglio prendere decisioni imperfette che essere alla continua ricerca di decisioni perfette che non si troveranno mai. Il potere non si prende, si raccatta e la politica italiana nel 2013 viveva un’impotenza paragonabile a quella della IV Repubblica del 1957.

 

Le mediazioni eccessive, la ricerca del compromesso a tutti i costi sono una zavorra mortale: governare non è la scelta tra il bene e il male, che magari potrebbe a volte anche essere evidente, intuitiva, ma tra diversi svantaggi, tra diversi mali e questo è sempre difficile da analizzare, più opinabile e in ogni caso non può fare da base per solide alleanze. Da qui la sfiducia per il regime parlamentare, di cui il Generale aveva visto da vicino l’inanità, il velleitarismo parolaio, il dilettantismo, l’avvitamento su di sé: dall’avvento del Fronte popolare i successivi governi non riuscirono a prendere la misura precisa del pericolo e ad assicurare al paese una congrua difesa militare. Un primo caso dunque di fobia dell’accozzaglia. La sua ossessione per una nuova Costituzione nasce nella tragedia della capitolazione, nel vedere il tradimento di borghesi, militari e diplomatici, Parigi ferita, violata: per il patriota cattolico il trauma fu incurabile. Aveva salvato l’onore del suo paese convincendo il popolo e gli alleati che la Francia non aveva perso la guerra, mai avrebbe accettato di restare al potere senza la riforma che lui voleva e che tutti gli altri contrastavano. Sceglie di andare dritto per la sua strada, aspettando che le circostanze si pieghino a lui: rimane quasi sei anni in solitudine ad aspettare la chiamata della patria che però sembrava averlo dimenticato, ogni giorno parla con François Mauriac che lo ragguaglia, nulla di nuovo mio Generale.

 

Sei anni che oggi sarebbero una vita e passarli a Pontassieve il nostro non ce lo vediamo proprio, non che il borgo sia peggio di Colombey-les-deux-Eglises, è che si è perso il piacere della scrittura, a lume di candela poi, e non ci sono più biografie così ricche da poter essere raccontate in migliaia di pagine. Nel suo caso però ne vale la pena. Entra nel pantheon letterario e nella storia: lo pregano in ginocchio di tornare in servizio, gli votano i pieni poteri, fa una nuova Costituzione in quattro mesi, cotta e mangiata, non la scrive il Parlamento e nemmeno il governo ma una commissione di giuristi coordinati dal ministro Debré: il popolo approva, al referendum il sì vince a larga maggioranza ma le forze politiche sono spaccate, gollisti contro centristi socialisti e comunisti, l’opposizione parla di golpe bianco, colpo di stato permanente, altro che i piagnucolii di questi mesi sulla deriva autoritaria. L’uomo al comando vuole essere davvero solo, in un rapporto esclusivo e assoluto con il popolo sovrano: non si accontenta dell’elezione indiretta a capo dello stato del 1959, vuole quella a suffragio universale che riesce a imporre con un secondo referendum, nel 1962. L’architettura della Quinta Repubblica si compie.

 

Il peccato d’origine è cancellato con la prima alternanza, nel 1981 un socialista accede alla magistratura suprema, si siede sulla poltrona che era stata del Generale e riconosce di trovarcisi molto molto bene: l’abito è dunque di alta sartoria. Il giovane italiano farebbe bene a non seguire questo copione: ritirarsi sei anni oggi da noi è come andare su Marte. Si faccia invece un partito suo, un Rassemblement del popolo italiano, tanto meglio che sia il Pd ma andrebbe bene anche una nuova creatura, si sbarazzi della quinta colonna di partigiani e comunisti dell’altro secolo, portatori di una tradizione culturale mortifera, che pensa e vede il mondo solo e soltanto in termini di crisi, di povertà, di capitalismo ogni volta più feroce e sempre più prossimo alla fine: tutte parole fasulle che portano pure sfiga, il Generale lo sapeva per questo si sentiva visceralmente anti comunista malgrado ogni tanto si servisse di loro per fare piedino a Mosca. Con il suo Pd o altro il nostro continui a predicare ottimismo, a manifestare fiducia nella grandezza dell’Italia e nelle sue risorse, quelli che lo stanno accusando di aver detto per mille giorni bugie e cose stucchevoli li mandi pubblicamente a quel paese. Anche in Francia ce l’avevano con la grandeur, l’eccezionalità del destino, con le tante tautologie della retorica gollista ma lui non si scompose: continuò a distinguere tra patriottismo e nazionalismo e anno dopo anno a mettere carne sul fuoco, il nucleare, la force de frappe, la nuova moneta, il cosiddetto franco pesante, Elf e la politica africana, il veto all’ingresso della Gran Bretagna in un’Europa che doveva essere delle nazioni, dall’Atlantico agli Urali, la sublime spavalderia che gli fa dire che gli americani fanno sempre fesserie e quando sono incommensurabili fanno incommensurabili fesserie, la lungimiranza che gli consente di vedere oltre l’Unione sovietica, passerà dice, tornerà la Russia di sempre, la madre eterna di Tolstoj e Dostoevskij.

 

E fa battute sulla difficoltà di governare un paese con 264 tipi diversi di formaggio (in Italia oggi ce ne sono certamente di più) e che avere un privilegio a testa è la sola idea di uguaglianza accettabile dai francesi. Sentisse parlare di storytelling tirerebbe fuori la rivoltella d’ordinanza, talmente detestava il mondo anglosassone a cominciare dalla lingua. Però anche il giovane impetuoso millennial potrebbe essere d’accordo che ogni tanto è meglio tirare il fiato: niente rafforza l’autorità quanto il silenzio, il silenzio è lo splendore dei forti. E non dovrebbe farsi cruccio di avere contro la maggioranza dei 19-34enni: la giovinezza è epoca transeunte e per lo più ingrata. Quando ci fu la ribellione di una generazione lui non cedette, non mise acqua nel vino, eppure quelli che manifestavano si chiamavano Daniel Cohn-Bendit, Serge July, Alain Geismar, Alain Finkielkraut, André Glucksmann, Bernard-Henri Lévy, non proprio agitatori di forconi e dipendenti dal grillopensiero. Disse la riforma sì, il casino no. Una parte del popolo manifestò al suo fianco sui Campi Elisi. E il Maggio finì. 

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  • Lanfranco Pace
  • Giornalista da tempo e per caso, crede che gli animali abbiano un'anima. Per proteggere i suoi, potrebbe anche chiedere un'ordinanza restrittiva contro Camillo Langone.