Beppe Grillo (foto LaPresse)

Dire senza dire. I 5 Stelle “diccì a loro insaputa”, ma non per Pomicino

Redazione

Non dire per scavallare, e potersi mostrare “di lotta” mentre si aspira, vista la mala parata altrui, a correre verso l’urna per farsi di governo

Roma. Parlare, parlare, parlare, e non necessariamente dire qualcosa. Parlare e dire quel nulla denso di frasi che permettono di pattinare sull’orlo del burrone, ché dire frasi di sostanza, in alcuni momenti della vita politica, potrebbe significare non poter tornare più indietro o, peggio, perdere definitivamente la possibilità di essere anche un po’ “altro da sé”. E dunque in questi giorni post-referendum, con crisi di governo e sua rapida soluzione, caduta dell’ex premier e non-resurrezione della Ditta, c’è chi deve per forza cimentarsi con l’arte del dire senza dire. Non dire per scavallare, e potersi mostrare “di lotta” mentre si aspira, vista la mala parata altrui, a correre verso l’urna per farsi di governo. Una cosa utilissima – il dire senza dire – durante le (ripetute) crisi da Prima Repubblica; cosa che si apprendeva nei sottoscala dei congressi diccì, tra correnti e sottocorrenti, cercando di non sbilanciarsi quel “troppo” che poteva essere letale al giro successivo. Cosa indispensabile in altri tempi e altri luoghi.

 

 

E però – pur senza una storia del genere alle spalle – il dire senza dire (nulla?) può rappresentare ora uno spazio-rifugio per i Cinque stelle alle prese con il loro essere in cima ai sondaggi senza sapere bene che cosa farsene. Tocca infatti ripetere all’infinito “no”. No al nuovo governo e “subito al voto” (per usare la formula dei due portavoce a turno di M5s, Giulia Grillo e Luigi Gaetti, all’uscita dalle consultazioni al Quirinale: “…il governo dimissionario deve limitarsi a essere mero strumento regolamentare al servizio del Parlamento e soprattutto della Corte costituzionale. Qualsiasi altra soluzione sarà un tradimento della volontà popolare…”. Prima variante: “…la volontà dei cittadini va rispettata…”; seconda variante “…Renzi, il suo governo e l’intero Partito democratico hanno fallito… Qualunque nuovo governo ancora una volta calato dall’alto… non avrebbe la legittimazione popolare per governare e… imporrebbe le solite ricette economiche a base di lacrime e sangue a danno di tutti i cittadini…”). Manca il “piove governo ladro”, restano le parole ossessivamente messe l’una accanto all’altra per impossibilità di mostrarsi dialoganti e/o propositivi. Per tutto il resto c’è il programma energetico in pillole da “decrescita felice” messo ai voti online sul blog di Grillo, il ritornello sul “referendum” sull’euro e il talismano retorico in grado di connettere sempre e comunque il “cittadino eletto” all’elettorato arrabbiato, impoverito e scontento, ovvero il tema “reddito di cittadinanza”.

E dunque può capitare, ai Cinque stelle in fase di “democristianizzazione” obtorto collo, di sentirsi dire “senta io però non reggo mezz’ora di frasi fatte”, come ha detto Lucia Annunziata al vicepresidente della Camera Luigi Di Maio durante la trasmissione “In mezz’ora” – e certo poi Annunziata ha addolcito la frase, scusandosi per l’espressione “forte, usata per suggerire di scendere più in profondità negli argomenti”. Ma il punto è proprio quello: come fare a scendere in profondità quando, per restare M5s, ogni volta che si deraglia dalla formula buona per la piazza, il social network e l’intervista, si rischia di trasformarsi in quello che l’elettore a Cinque stelle non voterebbe più? Servirebbe forse proprio un corso di “dire senza dire”, se non proprio di “dire nulla”, e un’azione creativa rispolveratrice di formule da Balena Bianca, ma Paolo Cirino Pomicino, ex ministro e democristiano storico che al referendum si è speso per il No e ora “ringrazia” e “dà atto” ai Cinque stelle “del grande contributo alla vittoria del No”), rifiuta di dare la patente di “aspiranti dorotei” ai grillini investiti del compito di dire senza dire (“non è che i dorotei non dicessero: dicevano con garbo, e hanno fatto pure la riforma agraria”, è la frase lapidaria di Pomicino).

E insomma quando Di Maio, a “In mezz’ora”, fa perdere la pazienza a Lucia Annunziata con la disquisizione-slogan sulla “classe politica” che non vuole andare a votare “perché ha paura del voto”, Pomicino dice che i Cinque stelle “sono destinati inevitabilmente alla scomparsa, ma probabilmente per crisi e non per lisi, come dicono i medici, e cioè per un processo improvviso e non graduale di calo della febbre. Da che mondo e mondo c’è chi cerca di immettere nel sistema istituzionale il modello del partito personale, e i Cinque stelle sono retti da un signore che ha potere assoluto di vita, morte ed espulsione. Con quel modello vogliono andare al governo del paese. Per carità, hanno fatto anche un’opera meritoria di istituzionalizzazione del disagio. Ma quel disagio prima o poi si squaglierà, se le altre forze politiche produrranno sulla società effetti positivi”. Che questo esito sia in qualche modo “già scritto”, dice Pomicino, “lo dimostra il fatto che i Cinque stelle non hanno una vera e propria visione, ma spunti onirici legati all’invenzione di Grillo, personaggio autorevole e mediatico con idee anche positive.

Per il resto, e con tutto il rispetto per le persone, come si fa a fare un programma di governo lasciando fare alla Rete e cioè alla piazza virtuale, ma pur sempre piazza?”. Si faccia caso al “linguaggio”, dice Pomicino, “e si prenda la parola ‘Direttorio’, lessico da Rivoluzione Francese che contiene in nuce l’arrivo di un Bonaparte, in questo caso un Grillo”. E ora se il Movimento “non si fa partito”, dice Pomicino, “non può andare al governo: può fare critiche anche giuste, ma se poi non argomenta la soluzione, a che serve? I Cinque stelle puntano sul ‘reddito di cittadinanza’. E va bene. Ma ‘referendum sull’euro’ che vuol dire? Il cittadino comune non può decidere sull’euro. La piazza, reale o virtuale che sia, decide sempre di andare in guerra, se la si fa diventare protagonista”.