Matteo Renzi tra Paolo Gentiloni e Sergio Mattarella (foto LaPresse)

Il nuovo difficile schema di Renzi tra palude, parrucconi e proporzionalisti

Redazione

Il partito del non voto è maggioritario, ma non è l’unico ostacolo che Renzi deve saltare se vuole sopravvivere. La carta di Gentiloni

Roma. Il grande sconfitto al referendum deve prima vincere la partita del nuovo governo, entro lunedì, se gli riesce, determinandone lui la natura del nuovo esecutivo (Paolo Gentiloni o Graziano Delrio), e poi dovrà vincere anche la partita delle elezioni anticipate, puntando a votare il 4 aprile del 2017, il prima possibile, quando cinquantamila  comuni sono già chiamati alle urne. Tutto è molto difficile, soprattutto nelle riunioni romane a Palazzo Chigi, nelle telefonate con il Quirinale e con la pressione dei media, tra i rumori dell’asilo d’infanzia, e con il concavo delle istituzioni immobili ormai mineralizzate dal No al referendum, tutto un meccanismo che fa aderire ai suoi stracchi vizi il convesso con il quale lui invece aveva tentato di scuotere la politica.

Tutto è molto difficile, soprattutto nelle riunioni romane a Palazzo Chigi, nelle telefonate con il Quirinale e con la pressione dei media, tra i rumori dell’asilo d’infanzia, e con il concavo delle istituzioni immobili ormai mineralizzate dal No al referendum, tutto un meccanismo che fa aderire ai suoi stracchi vizi il convesso con il quale lui invece aveva tentato di scuotere la politica. Fallendo. E allora Matteo Renzi non vive di ondeggiamenti della volontà, ma prende le misure al nuovo schema di gioco, che disegna attorno a lui un percorso complicatissimo: i suoi alleati di governo, i Lupi e gli Alfani, l’opposizione di centrodestra e leghista dei Brunetta e dei Salvini, e una parte non secondaria dei parlamentari del suo stesso partito, ex democristiani ed ex diessini, sono tutti accomunati da una sola intenzione, quella di rendere impossibile il ricorso a elezioni politiche in tempi ragionevoli. E così, in quel labirinto di specchi e stanchi paradossi nel quale la politica italiana si sta perdendo, tra rigurgiti proporzionali e 23 partiti convocati al Quirinale per le consultazioni, a fianco di Renzi, adesso, a chiedere il voto subito, senza attese né sentenze parruccone, c’è solo il Movimento cinque Stelle. “Non c’è nemmeno bisogno di un nuovo governo”, dicono infatti Luigi Di Maio e Roberto Fico, che, nel loro eterno conflitto tra politica e purezza, tra fantasia e realtà, si sono adesso accorti che con l’Italicum forse vincono le elezioni e dunque, sotto dettatura di Beppe Grillo, e tra mille strepiti repressi nel gruppo parlamentare frastornato dalla capriola, vogliono le urne anticipate proprio con quella stessa legge elettorale che appena due settimane fa era ancora “liberticida” e preludio alla “dittatura”.

Il vero punto in questione al referendum era: consociativismo, urla e piagnisteo oppure maggioritario e ottimismo e riforme che squillano, che reinnescano qualcosa, che ridanno il gusto dell’azzardo sul futuro.  Ha vinto la prima ipotesi, tutto quel sistema di veti incrociati che ha reso inefficiente la democrazia italiana ma in cambio ha consentito a poteri anche deboli e comunque non elettivi di esercitare funzioni spropositate. E allora è in questo schema, e da sconfitto, che Renzi adesso ingaggia la sua partita più difficile, si acconcia a giocare a ramino con la lobby democristiana del Pd, con Dario Franceschini e con i continuisti trasversali che stanno nella maggioranza e all’opposizione, con il Quirinale e con tutto il partito parruccone installato alla Consulta, che vorrebbe per Renzi una specie di governo Dini: palude e fucilazione. Dunque il grande sconfitto al referendum deve prima vincere la partita del nuovo governo, se gli riesce, determinandone lui la natura (Gentiloni o Delrio), e poi dovrà vincere anche la partita delle elezioni anticipate, puntando a votare il 4 aprile del 2017, il prima possibile, quando 50.000 comuni sono già chiamati alle urne.

Tutto molto complicato, anche soltanto per l’evidente sproporzione delle forze in campo. La prevalenza del partito  occulto e semi occulto del non voto, della stasi e dell’attesa, del partito trasversale dell’impaludamento. La Lega voleva il voto anticipato, ma ieri Roberto Maroni, vecchia volpe, ha corretto il tiro dello sbrigliatissimo e arruffato Matteo Salvini: “Va fatta un’intesa sulla legge elettorale e poi dopo, dopo, il voto”. E Forza Italia, che strepitava dopo la vittoria del No, adesso strepita sempre, ma in un altro modo: “Il Pd ha il dovere di garantire un nuovo governo”, dice Renato Brunetta. E Renato Schifani: “Forza Italia farà la sua parte puntando su una nuova legge elettorale”. Adelante, con juicio. Anche Giorgia Meloni ha ritrovato la misura e il rispetto dei tempi istituzionalmente corretti dopo la richiesta perentoria e forse affrettata di “sloggiare”, perché “un nuovo governo, anche se a scadenza, serve”. E ci sono poi le correnti della vecchia Dc che nel Partito democratico si muovono e contrattano in vista del congresso e delle future liste elettorali, e ci sono gli alleati con percentuali da prefisso telefonico che vogliono durare al governo e sopravvivere con il proporzionale (Maurizio Lupi: “Governo di prospettiva e riforma proporzionale”), e ci sono infine i mille micro partiti di questa legislatura, frutto delle mille atomiche scissioni, tutti permeati di uno spettrale andreottismo e doroteismo di ritorno. Un esempio per tutti, l’ex democristiano Lorenzo Dellai, eletto con Mario Monti, poi migrato altrove, ma ammesso ieri alle consultazioni di fronte a Sergio Mattarella: “Chiediamo un governo nella pienezza delle sue funzioni”.

Può Renzi ottenere il governo che vuole, un governo che ancora gli risponda e la cui data di scadenza sia un po’ affidata al suo desiderio? Sì, ma deve appunto giocare con le vecchie e polverose regole dello scambio e del baratto, quelle che gli sta imponendo, nel Pd, Franceschini (il quale chiede un patto per le prossime elezioni, insomma un pugno di eletti nelle liste). E può Renzi vincere la battaglia delle elezioni anticipate, stabilire da subito che si voterà il 4 aprile, anche qualora la palude parlamentare non riesca a produrre una riforma elettorale? Sì, ma si tratta di un gioco sfuggente, e persino più complicato di quello che si sta giocando in queste ore per la formazione del governo. Finché nel Pd non saranno tutti sicuri di non essere spazzati via dal segretario padrone delle liste elettorali, finché il centrodestra non troverà un suo equilibrio e una leadership, finché la miriade dei piccoli poteri interdittivi parlamentari non sarà rassicurata da un sistema elettorale che a tutti – ma proprio a tutti – garantisca un posto e una tribuna, senza un accordo sostanziale con il silente e inintelligibile Mattarella, l’operazione è terribilmente complicata. Tutto un meccanismo fangoso e lento, un vischio appiccicoso al quale Renzi, lui che è tutto scatti e impeti, che sull’equilibrismo funanbolico dello scalatore indefesso ha costruito la sua immagine pubblica, non è abituato.