Referendum: Sergio Mattarella al voto (foto LaPresse)

Perché il post referendum apre una guerra cruenta tra mondi (non solo nel Partito democratico)

Sergio Soave

Toccherà agli eredi di Renzi fare i conti con la minoranza indisciplinata e scegliere se “patteggiare” con Berlusconi o con Grillo

Il referendum ha chiuso una fase politica, che era stata avviata da Giorgio Napolitano, che puntava a sormontare la situazione di ingovernabilità uscita dalle urne per il mancato successo di Pier Luigi Bersani, mettendo al centro l’obiettivo di un’intesa per le riforme istituzionali. Il percorso tortuoso di quelle intese, prima sottoscritte da Forza Italia, che poi si divise in un’ala ministeriale e in una passata all’opposizione anche sulle riforme, ha portato comunque all’approvazione parlamentare di un testo di riforma, ora bocciato dall’elettorato. Dunque il mandato originario dei governi di questa legislatura, prima quello di Enrico Letta e poi quello di Matteo Renzi, è esaurito (e lo sarebbe anche se il voto avesse dato un esito opposto). Anche se formalmente in assenza di un voto di sfiducia parlamentare non ci sono le condizioni per sancire la conclusione anticipata della legislatura, la sfiducia indirettamente espressa dal corpo elettorale è sufficiente a porre al Quirinale la prospettiva di uno scioglimento delle Camere.

 

 

Se non si fosse pasticciato – per effetto di interventi della Corte costituzionale sulla legge elettorale – la via maestra sarebbe tracciata: un governo di transizione per arrivare alle elezioni in primavera. Il fatto è che per votare bisognerebbe conoscere le determinazioni della Consulta sulla nuova legge elettorale per la Camera, e in ogni caso si deve constatare la divergenza tra la legge elettorale del Senato – che sarà rieletto – di impianto sostanzialmente proporzionale, e quella maggioritaria per la Camera. L’incertezza nasce dalla scelta della Consulta, largamente opinabile, di attendere l’esito del referendum prima di esprimersi sulle contestazioni all’Italicum. D’altra parte, in materia di modifiche del meccanismo di voto si decide sempre immediatamente prima della convocazione delle elezioni; questa volta lo si è fatto troppo presto e ora bisogna provvedere con una riforma della riforma.  

 

Il nuovo mandato, molto delimitato nel tempo, sarà quindi quello di realizzare un’intesa sui meccanismi di voto e questo è un tema politico assai complesso in relazione al quale si determineranno i rapporti tra le forze politiche e al loro interno. All’ala filogovernativa degli eletti nelle liste di Forza Italia, cioè a Angelo Alfano e a Denis Verdini, spetta un ruolo di primo piano, perché resta indispensabile per fornire a un governo di transizione la fiducia al Senato ma, soprattutto, perché può esercitare una funzione di raccordo per ricostituire il patto del Nazareno, magari con altri protagonisti e contenuto limitato alla legge elettorale.

 

L’altro polo che assume un grande rilievo, naturalmente, è quello dei vincitori del referendum, cioè il Movimento 5 stelle. Beppe Grillo ha in mente una proposta abbastanza chiara: lasciare l’Italicum com’è, salvo eventuali modifiche richieste dalla Consulta, e approvazione di una legge elettorale nuova per il Senato che riproduca il meccanismo maggioritario a due turni di quella della Camera. E’ evidente l’interesse dei grillini, che ancora una volta hanno dimostrato di saper attirare sulle loro posizioni l’elettorato di centrodestra a differenza del Partito democratico che non è riuscito a esercitare la funzione di “partito della nazione”.

 

Spetterà al Partito democratico (una volta ristabilite le relazioni con Alfano e Verdini) scegliere se “patteggiare” con Berlusconi, trasformando in senso più proporzionale il sistema elettorale della Camera, o con Grillo, trasformando in senso maggioritario quello del Senato. Si tratta di una scelta politica non scontata: si tratta di decidere se accettare il rischio di una vittoria e di un governo affidato ai grillini pur di salvaguardare la democrazia dell’alternanza anche in una situazione in cui l’elettorato non si polarizza secondo gli schemi tradizionali, oppure se accettare come ineluttabile una prospettiva di coalizioni disomogenee tendenzialmente instabili ma più facilmente in grado di escludere o comunque di condizionare un pericolo grillino. Per assumere decisioni politiche che gli spettano per effetto della sua presenza maggioritaria alla Camera, il Partito democratico deve darsi una direzione politica, che probabilmente non sarà assunta personalmente da Renzi, che vuole essere fedele alla sua dichiarazione di assunzione piena delle responsabilità e delle conseguenze della sconfitta, il che non significa che scompaiano i renziani, che hanno comunque ottenuto il consenso insufficiente ma consistente del 40 per cento dell’elettorato.

 

Saranno gli eredi di Renzi a fare i conti con la minoranza indisciplinata che ha contribuito a far cadere il governo del Pd ed è difficile pensare che non daranno corso a una resa dei conti che esprima la rabbia montante nella base. Massimo D’Alema sostiene che solo la scelta dei dissidenti consente a una parte del centrosinistra di stare dalla parte dei vincitori, ma il corpo elettorale del Pd considera quelli che festeggiano la sua sconfitta come traditori e questo non consente una gestione pacifica del dopo referendum. Anche per questo, Renzi difficilmente accetterà le pressioni un po’ ipocrite dei suoi avversari che gli chiedono di mantenere “per senso di responsabilità” le cariche di governo e di partito. Se ci sarà una notte di San Bartolomeo che porterà all’esclusione dei seguaci di Pier Luigi Bersani, a Renzi converrà non essere direttamente implicato, ma naturalmente non gli si può chiedere di garantire la minoranza che lo ha sempre combattuto. Però non sarà la divisione tra correnti il problema da affrontare per mantenere l’unità del Pd ma la netta separazione di orientamenti tra il centro-nord e il sud, che non si è vista bene perché il No ha vinto anche nelle regioni del nord dove è più forte la Lega ma che, se si guardano le differenze nelle percentuali, parla di due Italie diverse e sempre più lontane. La straordinaria partecipazione elettorale dice che c’è spazio reale per la politica, ma mette anche a nudo alcune difficoltà che richiedono scelte e battaglie anche culturali, per le quali l’attrezzatura e forse proprio l’articolazione concreta dei partiti attuali appare largamente insufficiente (come si evince dal fatto che ormai i fenomeni di dissidenza sembrano fisiologici) e questo rende la crisi che si apre particolarmente rilevante.