Silvio Berlusconi (foto LaPresse)

Eccolo finalmente l'appello di Silvio Berlusconi per il Sì

I veri nemici della Costituzione sono tutti coloro che si alleano per non cambiare la Costituzione. All’Italia serve una svolta maggioritaria contro i vecchi arnesi del proporzionale. Grande discorso di Berlusconi (del 1995).

Signor Presidente, signori deputati. Precisamente un anno fa, il 2 agosto, ebbi l’onore di parlare alla Camera, come Presidente del Consiglio, in risposta ad atti ispettivi di parlamentari della maggioranza e dell’opposizione. Ricorderete, signori deputati, che la situazione politica era fortemente surriscaldata: maggioranza ed opposizione non trovavano alcun terreno di intesa. Il voto aveva designato al Governo i moderati ed i riformatori del polo delle libertà, mentre i progressisti erano il gruppo più forte dell’opposizione. I toni della contesa politica erano assai aspri e si parlava apertamente di crisi di Governo: regnava una sovrana incomunicabilità. Oggi non parlo dal banco del Governo, ma sento la responsabilità e l’orgoglio di parlare come leader del polo delle libertà e del buon governo, che parla con una sola voce. Intervengo, perciò, anche a nome di alleanza nazionale, del centro cristiano democratico, dei cristiano democratici uniti, della lega italiana federalista, dell’unione federalista, dei federalisti e liberaldemocratici e dei riformatori. Tali gruppi parlamentari mi hanno dato congiuntamente mandato di rappresentare qui la nostra comune posizione sulle riforme costituzionali, che deriva da comuni principi e da un comune sentire. Non voglio ora rievocare i fatti successivi al discorso di un anno fa ed il loro significato per la vita di questo paese.

 

 

Mi limito a ricordare che al termine del mio intervento rivolsi un appello, all’opposizione costituzionale, che suonava così: incalzateci, controllateci, criticateci, opponetevi con ogni mezzo alle nostre decisioni, preparatevi a sostituirci dopo le prossime elezioni politiche, ma riconoscete la nostra legittimità a governare e lasciateci lavorare, lasciateci attuare il programma per l’Italia che abbiamo proposto agli elettori e che questi hanno scelto. Nelle democrazie che funzionano – ebbi modo di concludere – si fa così. La questione istituzionale di cui oggi discutiamo nasce da lì, dal concreto di quello scontro politico asperrimo. Per decenni nel nostro paese si è discusso in ogni forma ed in ogni modo di riforme costituzionali, di urgenti mutamenti del sistema politico, di grandi svolte e correzioni rispetto alla lunga storia della prima Repubblica. E’ stato un dibattito alto e severo nei suoi contenuti, al quale hanno dato un contributo grandi personalità della nostra vita pubblica. Ma quel dibattito era viziato da una certa astrattezza di fondo; si capiva che le cose di cui si discuteva erano considerate con un interesse estrinseco di tipo dotto ed accademico, senza un diretto collegamento con la realtà della battaglia politica e civile. L’Italia dei partiti, fondata sul sistema elettorale proporzionale e sulla dottrina non scritta del consociativismo, si permetteva il lusso di immaginare un futuro che però non doveva arrivare mai.

Il delicato equilibrio dei rapporti consociativi tra partiti-Stato poteva essere messo in discussione solo e soltanto con il pensiero, con la fantasia costituzionale: i fatti e con essi il debito pubblico e la credibilità internazionale del paese andavano in un’altra direzione. Quell’equilibrio oggi non esiste più. Il referendum che ha introdotto in Italia il sistema maggioritario e poi il concreto funzionamento di questo sistema con il voto del 27 marzo 1994, hanno creato nuove condizioni ed un nuovo scenario per tutti. Nel nuovo sistema politico, per quanto testardi e scaltri siano i tentativi di restaurare surrettiziamente le vecchie abitudini, non deve esserci più spazio per il vecchio balletto dei governi che durano un’effìmera stagione, per il sequestro della decisione politica da parte di potenti apparati di partito, per una logica di rinvio dei problemi e di crisi permanente dello Stato. I cittadini con il sistema maggioritario hanno conquistato il diritto di votare per coalizioni chiaramente alternative tra loro, per programmi diversi che esprimono culture e sensibilità diverse e spesso opposte e, soprattutto, hanno il diritto di costruire con il loro voto una seria stabilità politica, fornendo ai governi il tempo utile e gli strumenti utili per attuare i programmi di cui sono espressione. A questo diritto corrisponde la possibilità inequivoca di cambiare – al termine di un mandato di legislatura – Governo e maggioranza. La politica così diventa un’occasione civile ed un momento alto di espressione della società civile, anziché una professione a vita. La classe di governo non è, e non deve più essere, buona per tutte le stagioni, le facce non devono più essere le stesse per mezzo secolo. Il compito di chi fa politica, se vuole confermare il consenso di cui gode, non è più quello di autoriprodursi e di perpetuarsi: chi fa politica deve fare cose utili per il proprio paese. Se ci riesce, resta per un tempo circoscritto; se non ci riesce, va via. La questione istituzionale, il problema dello strumento di guida del Governo, del volante che deve essere dato a chi guida lo Stato, si pone dunque in tutta la sua concretezza solo e soltanto oggi. Stavolta bisogna decidere per un grande cambiamento, per una grande svolta, per una grande riforma. Ho apprezzato l’ipotesi, che è stata avanzata anche da molti deputati del polo, che la grande riforma a cui dobbiamo lavorare sia deliberata da un’assemblea costituente per meglio scandire la discontinuità tra la nuova fase della Repubblica e quella che ci stiamo lasciando alle spalle.

Ma questa ipotesi, che avevo giudicato poco praticabile per motivi sostanziali e che comunque – per i tempi necessari – allontanerebbe nel tempo l’obiettivo del cambiamento, non ha in ogni caso incontrato quel consenso diffuso e generalizzato a cui dovrebbe aspirare un assemblea costituente realmente legittimata. In queste condizioni, temo che essa si risolverebbe in una forzatura. E’ bene quindi che alla grande riforma si ponga mano nella prossima legislatura, utilizzando l’apposito procedimento di revisione costituzionale regolato dall’articolo 138. In questa direzione ci siamo dichiarati e ci dichiariamo favorevoli ad una revisione della nostra forma di governo che veda il vertice dell’esecutivo insediato direttamente e senza mediazioni dal voto degli elettori; un esecutivo che tragga la sua forza e legittimazione a governare dall’investitura diretta dei cittadini e non dalle diffìcili, mutevoli e sempre precarie intese tra i partiti. Quale sia lo sbocco finale di un Governo che per sopravvivere debba fare conti quotidianamente con maggioranze parlamentari che il più delle volte sono tali soltanto di nome, e che sono invece percorse al loro interno da divergenze, disomogeneità o vere e proprie fratture latenti, lo insegna la nostra storia istituzionale, anche recente: governi deboli, prigionieri di maggioranze che riescono a stare insieme solo facendo dello scambio politico e della dissoluzione della finanza pubblica la loro vera identità politica e la loro più profonda ragion d’essere.

“Gli italiani sanno scegliere e sanno votare nei referendum, come hanno dimostrato dal 1974 ad oggi, con una puntigliosità e con una capacità di essere liberi che è il tratto migliore della nostra storia”

Per governi di questo genere non può esservi posto nell’Italia che vogliamo, nel sistema istituzionale che costruiremo e per il quale chiederemo il sostegno degli elettori. Il governo ha da essere autorevole, trasparente, responsabile della sua politica di fronte ai cittadini; deve essere capace di difendere la sua politica (sulla quale ha raccolto il consenso elettorale) dai sotterfugi, dagli intralci, dai trabocchetti e dalle congiure di palazzo. Il Governo, l’istituzione più debole nell’attuale organizzazione costituzionale, deve essere dotato di strumenti efficaci di iniziativa politica e dei poteri necessari per dare attuazione e seguito al suo programma. Nella nostra storia, questo non è mai stato. Ogni legge, ogni decisione, anche quelle di minimo rilievo, è misura occasionale, contingente, provvisoria. E non si richiede che le leggi siano pensate nel contesto di un disegno strategico, di linee coerenti di politica pubblica. Nella mia esperienza di Governo ho potuto direttamente constatare quale sia l’assenza di responsabilità ai diversi livelli e la grave mancanza di efficaci strumenti a disposizione dell’esecutivo, e ho potuto apprendere quanto profondi ed insanabili siano i guasti che tutto ciò ha comportato per la vita pubblica. Alla debolezza dell’istituzione Governo si è sempre accompagnata – né poteva passere altrimenti – la debolezza del Parlamento, che si mostra sempre più incapace di elaborare coerenti linee di indirizzo politico e di assumere con tempestività quelle grandi decisioni alle quali, nei diversi ambiti della vita associata, i tempi ci costringono.

La lentezza, la macchinosità del procedimento legislativo, la dispersione delle attività delle Camere in una miriade di piccole misure e provvedimenti minimi, che servono questa o quella piccola clientela, hanno portato alla legificazione di ogni settore dell’ordinamento, che impedisce a qualsiasi Governo, anche se animato da buone intenzioni, di farsi protagonista di un’attività riformatrice. All’insegna della centralità del Parlamento, le Camere si sono occupate di tutto, riducendo lo spazio di azione dell’esecutivo entro margini ridottissimi e impedendo al Governo di esercitare quella funzione esecutiva che gli deve competere, senza peraltro riuscire — aggiungo — a garantire un efficace sistema di controllo. L’unico strumento che il Governo ha a disposizione per far sentire la sua voce è il decreto-legge. Ma di questo strumento eccezionale e straordinario la prassi del nostro sistema costituzionale ha imposto un uso distorto e deviante, trasformandolo in un normale ed ordinario strumento di governo che viene utilizzato, ormai senza limiti, in ogni materia: decreti-legge in materia elettorale, decreti-legge in materia di libertà, perfino decreti-legge con quali viene soffocato il pubblico dibattito in campagna elettorale, in momenti cioè nei quali la democrazia deve assumere la pienezza del suo significato sostanziale e celebrare il suo momento più elevato. Sarebbe ingeneroso imputare ai singoli governi l’esclusiva responsabilità dell’uso di storto del decreto-legge e della prassi aberrante della reiterazione, che lo trasforma in ordinario e permanente strumento di legificazione sottratto ad ogni forma di controllo. È il Parlamento, per lo più sperduto dietro cure minute, sono le forze politiche, i partiti nella loro cronica incapacità decisionale a premere perché i governi, anche se privi di obiettivi consapevoli e di linee generali di indirizzo prestabilite e condivise da una maggioranza omogenea, legiferino in via straordinaria e precaria.

Ecco, da noi per governare al minimo è necessario il massimo di precarietà e di straordinarietà. È tempo che tutto ciò finisca! È tempo che con l’investitura diretta del suo vertice il Governo acquisti autorevolezza e capacità decisionale e disponga di strumenti ordinari di intervento. È tempo che, nel rispetto della separazione dei poteri e in una diversa visione del rapporto tra esecutivo e legislativo, il Parlamento non invada potestà esecutive, limiti la sua azione a norme di legge semplici, chiare e generali e cessi di ingombrare il campo di leggine… Insomma, ci vuole l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo! Coloro che per anni si sono alimentati al presente sistema, che ha profondamente alterato la logica della separazione dei poteri; coloro che hanno diffuso i loro metodi politico-clientelari basati sul proporzionalismo e sulle leggine di spesa – questa quota a te che sei il partito di maggioranza relativa, quest’altra quota a te che sei il principale partito dell’opposizione, quest’ulteriore quota anche a te, che pur essendo piccolo, hai un forte potere di interdizione –, tutti costoro sono insorti alla nostra proposta di riforma! Dopo essersi spartiti lo Stato e la società civile, dopo essersi inseriti in ogni più remoto ambito della vita sociale, portandovi filosofie lottizzatrici ed assistenziali, dopo aver spinto lo Stato e le istituzioni al collasso finanziario e ai margini del processo di unificazione europea, alcuni inveterati protagonisti del passato si arroccano a protezione di questo sfascio che hanno contribuito in misura non lieve a determinare! All’idea di un risolutivo rafforzamento dell’esecutivo che solo dall’elezione diretta e dall’attuazione piena del principio della separazione dei poteri può venire; all’idea di un ambito proprio di competenze costituzionali del Governo, sottratto alla logica della mediazione continua e pervasiva (anche sui provvedimenti più scontati e doverosi); all’idea della costruzione di un’autonomia istituzionale dell’esecutivo e di una legittimazione propria, i nostalgici del proporziolismo e della consociazione insorgono. Si dichiarano non protetti e chiedono garanzie.

E la garanzia quale sarebbe? Blindiamo la nostra Costituzione, costruiamole attorno una muraglia invalicabile, facciamo sì che per la riforma che ci viene proposta occorrano maggioranze irraggiungibili, modifichiamo il procedimento di revisione in modo che la vera revisione, di cui c’è bisogno, non possa aver luogo. Questa inversione delle linee di tendenza della nostra storia, segnata da un referendum che ha impresso al nostro sistema una spinta verso il bipolarismo non così facilmente reversibile nel breve periodo... questa inversione negli ambiti variegati della sinistra, che pure si proclamano liberali e anzi impartiscono un po’ a tutti lezioni di liberalismo, pretende di avere una giustificazione ideale. L’elezione diretta del vertice dell’esecutivo comporta la personalizzazione della politica e contiene pericoli autoritari, essi dicono. Con questa proposta – ecco la parola d’ordine delle sinistre — si vogliono azzerare le libertà. L’equazione tra elezione diretta del vertice dell’esecutivo e sistema autoritario è però un falso. Bisogna smetterla di falsificare le proposte altrui. Se le sinistre ritengono che il sistema che ci ha governato sia buono, se intendono perpetuarlo chiamandone a raccolta tutti gli eredi, se intendono curare quel malato grave che sono le nostre istituzioni con fìnte riforme che lasciano tutto come è – e magari ci si riesce conquistando posizioni di ulteriore privilegio con sacrificio del paese –, abbiano il coraggio di dirlo e di assumersene davanti a tutti la responsabilità. Volete che con una riforma costituzionale sia posto ai governi l’obbligo di pareggio di bilancio? O volete lasciarvi libere le mani e scegliere lo sbilancio e l’aggravio delle condizioni della finanza pubblica come strumento di conquista e di mantenimento del consenso? Le nostre libertà, quelle che sono scritte nella parte I della Costituzione, sono care a noi, prima di tutto. E noi vogliamo che quelle libertà civili, politiche, amministrative e sociali siano preservate e realizzate.

“Tale riforma dovrà essere nel senso della trasformazione della seconda Camera in un organo rappresentativo delle autonomie locali; sarà questo il luogo dove le competenze spettanti ai diversi livelli territoriali”

Non sarà certo l’elezione diretta dell’esecutivo a conculcarle. Questa anzi contribuirà a renderle effettive. Un mutamento della nostra forma di governo con il sistema presidenziale noi lo vediamo come la sola via praticabile non solo per favorire la nascita e il consolidarsi di aggregazioni politiche solide, orientate a competere per la guida del Governo, ma anche per inverare quelle libertà che la consociazione ha negato rendendo precarie le basi finanziarie sulle quali un moderno sistema di libertà si regge. Nulla vogliamo toccare e per parte nostra nulla sarà toccato dei principi sostanziali della Costituzione. Da quando anche voi delle sinistre avete riconosciuto che la Costituzione economica non è una variabile indipendente del sistema di libertà, da quando, proclamativi liberali, dichiarate di credere nel mercato come bene fondamentale ripudiando – non tutti, in verità – la vostra vecchia idea, quella che chiamavate la democrazia progressiva che doveva portare con l’egemonia dell’ideologia marxiana alla collettivizzazione ed al superamento del mercato e della libera iniziativa economica, ebbene dopo tutti questi fondamentali cambiamenti, quel sistema di libertà e di diritti fondamentali, finalmente da inverare, può diventare la casa comune. L’idea di libertà che abbiamo in mente e che guarda al mercato, alla produzione, al lavoro, all’inventiva, all’intelligenza ed alla cultura come le nostre autentiche risorse che possono portarci a competere alla pari con le nazioni progredite, non ha nulla a che spartire con il liberismo selvaggio e darwiniano. I diritti sociali, colleghi delle sinistre, non sono solo questione vostra. Essi fanno parte della nostra cultura e sono legati a quell’idea di solidarietà tra gli uomini dalla quale il nostro liberalismo in economia non è disgiunto.

Ma c’è una differenza tra noi e voi: i diritti sociali per noi non sono una variabile indipendente rispetto alle condizioni della finanza pubblica! La sostanziale assenza di governi autorevoli e legittimati, che non fossero prigionieri delle consorterie della spesa pubblica e che non considerassero il crescente indebitamento dello Stato come una condizione beneficia e comunque ineliminabile nel welfare State, è per noi la causa prima del disastro finanziario e morale della cosa pubblica! L’azione diretta del vertice dell’esecutivo che, con una forte legittimazione di investitura, ponga il Governo al riparo delle consorterie politiche della spesa pubblica, è per noi la chiave di volta che può determinare un diverso modo d’essere del rapporto tra cittadino e Stato! L’elezione diretta del vertice dell’esecutivo rende questo responsabile delle politiche pubbliche di fronte agli elettori! Il rafforzamento dell’esecutivo e la sua preminente responsabilità della politica finanziaria e di bilancio concorrono a mantenere i diritti sociali nel loro ambito naturale, a legarli alle condizioni della finanza pubblica, a far sì che essi non trasformino – come è accaduto da noi – lo Stato sociale in Stato assistenziale. La riforma che proponiamo riguarda dunque il modo d’essere e di funzionare di una Costituzione che mantiene intatto un patrimonio di valori che appartiene alla tradizione e che, anzi, intende svolgerlo in maniera equilibrata, collocando alla base dell’intero edificio un sistema di diritti che, in campo economico, guardano all’impresa e all’iniziativa privata come al motore del sistema produttivo e, in campo sociale, guardano alla finanza pubblica come condizione sine qua non di qualunque aspettativa il cui soddisfacimento richieda l’intervento finanziario dello Stato! Il sistema che abbiamo in mente tende a valorizzare il mercato non solo come luogo ove si produce il benessere della nazione, ma dove si indirizzano e trovano appagamento aspettative di servizi efficienti, di beni materiali, morali e culturali; aspettative che, nell’età del consociativismo, guardavano ai pubblici poteri e relegavano il mercato e le imprese in una posizione subalterna.

Nel sistema che vogliamo, il rafforzamento dei poteri dell’esecutivo si accompagna ad un rafforzamento del mercato e dei suoi protagonisti. La privatizzazione pressoché totale dell’economia pubblica è perciò una premessa perché il disegno si realizzi. Ma in questo stesso sistema si rafforza anche il Parlamento che, oltre ad essere il vertice della legislazione generale e della tutela delle libertà (le cosiddette riserve di legge in materia, appunto, di libertà devono essere mantenute, affinché ogni disciplina sia posta a seguito di un dibattito pubblico che dia voce alla maggioranza e alla opposizione) deve diventare la sede del controllo stringente dell’attività dell’esecutivo affinché questa sia sempre più attività trasparente! La minoranza dovrà vedere rafforzato il proprio ruolo con la elaborazione di un vero e proprio statuto delle opposizioni. Nell’ambito di tale statuto, potranno essere addirittura previste forme di ricorso diretto alla Corte costituzionale a tutela dei diritti e dello status di parlamentare tutte le volte in cui le maggioranze, con propri atti, abbiano conculcato la posizione delle minoranze. Ma c’è un altro problema di fondo: il federalismo in un equilibrato sistema di bilanciamenti verso il completamento di una vera e propria democrazia maggioritaria, vanno rinvigorite le autonomie. Il principio fondamentale dell’unità e indivisibilità della Repubblica, scritto nell’articolo 5 della Costituzione, deve essere mantenuto fermo, sottratto a qualunque tentativo di revisione e protetto da tutte le istituzioni statali, anche contro i tentativi di minarne il valore etico, con virulente promesse di secessione simboleggiate dalla goffa creazione di parlamenti del nord! La nostra fedeltà ai principi fondamentali è assai più salda di quella di chi, per miope tatticismo politico, avendo evidentemente perduto ogni idealità e non sapendo più liberarsi da un machiavellismo fine a se stesso, blandisce il vero nemico della Costituzione come possibile alleato contro le forze autenticamente riformatrici presenti nel paese.

Fermo dunque il principio di indivisibilità della Repubblica, bisogna avviare, finalmente, il percorso delle autonomie, come del resto espressamente previsto dalla nostra Costituzione. Dico «avviare», perché i salti in avanti verso un federalismo oscuro e parolaio vengono proposti e trovano sorprendentemente seguito — un seguito tutto tattico e strumentale — senza che in Italia la strada di un vero Stato regionalista e del le autonomie sia stata neppure tentata. Le regioni e gli enti locali debbono avere competenze proprie ed esclusive in materie in cui lo Stato non deve interferire con proprie leggi, né l’esecutivo esercitare poteri politici sotto le mentite spoglie del controllo di legittimità. I controlli statali di legittimità o di merito sull’attività delle regioni vanno tutti aboliti, deve restare solo la tutela giurisdizionale dei singoli e dei gruppi davanti ai giudici competenti. Le regioni debbono avere quell’autonomia finanziaria, sia sul versante dell’entrata sia sul versante della spesa, che la Costituzione vagamente promette e che le leggi ordinarie hanno sistematicamente negato, riducendo regioni ed enti locali a soggetti erogatori di spese predeterminate nella qualità e nella quantità. Leggi statali hanno contribuito a deresponsabilizzare i diversi livelli di governo: lo Stato, che di fronte alla grave inadeguatezza dei servizi ha sempre potuto dire che la responsabilità è delle regioni alle quali spettano le competenze materiali sull’organizzazione e sull’erogazione di una molteplicità di servizi, la regione che ha sempre potuto dire — ed ha sempre detto — che l’entità delle risorse è stabilita dallo Stato e che la direzione della spesa pubblica è vincolata per decisioni statali.

Come nei rapporti tra Parlamento e Governo, così in quelli tra Stato e regioni, nulla funziona, ma nessuno è responsabile di alcunché. Con l’autonomia finanziaria le regioni disporranno finalmente di propri indirizzi politici e ne saranno esclusivamente responsabili, con l’ovvia precisazione che la capacità impositiva che va riconoscuta alle regioni non potrà rappresentare per esse una risorsa finanziaria esaustiva e che continueranno ad essere necessari trasferimenti di risorse verso le regioni più sfortunate, per ragioni di solidarietà, anche territoriale, che fanno una ed indivisibile la nostra Repubblica. Ma le regioni, a loro volta, non possono soffocare le autonomie minori, che sono la dimensione nella quale la stessa autonomia trova il suo più denso significato storico e sociologico. L’organizzazione dei poteri pubblici su base territoriale deve quindi essere improntata al principio di sussidiarietà, che nella nostra visione è anche un grande principio di libertà e che riguarda gli stessi rapporti tra società ed istituzioni.

Alla base vi sono la società civile, gli individui e la loro possibile sfera di azione. Tutti i bisogni di beni, di acquisto di servizi, tutte le aspettative che i singoli possono soddisfare da soli, senza la necessità del sostegno pubblico, fanno parte dell’ambito di libertà di una società moderna, che è segnato da un limite entro il quale lo Stato ha solo compiti di disciplina e di regolamentazione. Dove, invece, gli individui da soli non riescono – e qui già occorre distinguere i cittadini a seconda delle loro condizioni economiche e sociali – soccorre la comunità territoriale immediatamente più vicina, la cui sfera di competenze si spinge fino al punto in cui ad un livello territoriale superiore si può far meglio e a costi minori; il tutto in un processo ascendente e non discendente, che parte dai singoli cittadini e giunge fino alle comunità sovranazionali, rispetto alle quali lo Stato è solo ima dimensione intermedia. È, poi, necessaria una riforma dell’attuale sistema bicamerale che, anche per l’eccessivo numero del parlamentari, comporta un inutile spreco di lavoro e lungaggini dei procedimenti decisionali quali nessuna moderna democrazia potrebbe e può sopportare. Tale riforma dovrà essere nel senso della trasformazione della seconda Camera in un organo rappresentativo delle autonomie locali; sarà questo il luogo dove le competenze spettanti ai diversi livelli territoriali troveranno la prima e più importante garanzia politica e dove il principio di sussidiarietà troverà la sua protezione. Il completamento della forma di governo a elezione diretta del vertice dovrà venire da un pregnante sistema di protezione del diritti fondamentali, che deve rovesciare il rapporto tra Stato e cittadini e che dovrà essere la base e al tempo stesso il coronamento dell’edificio.

Tutti coloro che saranno lesi in un loro fondamentale diritto da un atto dei pubblici poteri (non importa se del Parlamento, del Governo, della pubblica amministrazione o dei giudici) dovranno avere la possibilità di ricorrere efficacemente fino alla Corte costituzionale. E’ questa, fra tutte, la garanzia che ci è più cara e nella quale proponiamo le maggiori speranze per la piena realizzazione di una vera democrazia nel nostro paese. Non siamo in presenza di garanzie rivendicate dalle opposizioni parlamentari che sono, certo, importanti ma non esaustive perché nel Parlamento non si esaurisce la vita di uno Stato; si tratta, invece, di offrire garanzie ai cittadini. L’ampiezza e l’efficienza di tali garanzie danno la reale misura del grado di civiltà raggiunto dal paese. Dopo tanto vano vociare sui diritti, tenuti presenti in Italia solo in quanto comportavano un’utilità politica per i partiti, si deve oggi guardare al cittadino libero, non protetto dall’appartenenza politica perché dal cittadno deve partire il processo riformatore e verso il cittadino deve orientarsi. Merita infine qualche considerazione l’ipotesi di innalzare il quorum dell’articolo 138 per rendere più ardua la revisione della prima parte della Costituzione. Le riforme che abbiamo in mente, e che saranno i punti salienti del programma politico del polo, non mirano certo ad eliminare o anche soltanto ad attenuare le libertà fondamentali; sono semmai intese a potenziarle e a far sì che esse divengano principi attivi, libertà reali dei cittadini. Non abbiamo pertanto alcuna obiezione d’ordine generale a che i principi fondamentali di libertà siano rinvigoriti e resi più difficilmente modificabili anche attraverso garanzie formali. È su tali principi di libertà che dobbiamo verificare la possibilità, la necessità di costruire insieme la casa autenticamente comune.

Mi limito a pochi esempi. Riserve ci vengono dal fatto che non siamo certi che vi sia identità di vedute sul modo di intendere quelle libertà e siamo colti dal sospetto che sia diffusa tra i nostri oppositori una visione molto ideologica, che considera quelle libertà come strumento di superamento del sistema economico di mercato. Non siamo neppure certi che abbiate la nostra stessa sensibilità per le garanzie di libertà individuali, sulle quali la prima parte della Costituzione è imperniata. Quando leggiamo, ad esempio, nell’articolo 13 della Costituzione, che la libertà individuale è inviolabile, siamo certi di assumere il termine «inviolabile» nella sua accezione più piena e collochiamo tale libertà nel punto più elevato del sistema dei valori? Altrettanto ci accade quando leggiamo nell’articolo 14 della Costituzione che la libertà domiciliare è inviolabile, o ancora, nell’articolo 15, che inviolabili sono la segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni o che inviolabile è il diritto di difesa in ogni stato e grado del giudizio. Quando, nell’articolo 27 della Costituzione, leggiamo che nessuno può essere ritenuto colpevole prima della condanna definitiva, avvertiamo il medesimo sentimento di insoddisfazione per le gravi illibertà nelle quali viene amministrata la giustizia? E sentiamo che i nostri propositi di riforma corrispondono a grandi valori costituzionali ancora inattuati?

Credo che agli italiani, che sono gli ultimi giudici di quello che noi qui discutiamo, possa e debba essere sottoposta la decisione sulle proposte alternative di modifica della seconda parte della Costituzione

Qualche dubbio insorge anche a proposito dei diritti sociali e del ruolo che essi devono svolgere in un sistema retto dai principi dell’economia di mercato; credo, quindi, valga la pena affrontarne qualcuno. Emblematica è la vicenda del cosiddetto diritto al lavoro, da grande valore che avrebbe dovuto orientare le politiche pubbliche verso il rafforzamento dell’economia di mercato è stato trasformato poco a poco in uno dei fattori di disgregazione delle basi economiche dello Stato sociale, a causa dell’accollo agli apparati pubblici, oltre ogni limite di sopportazione, di clientele politiche dedite, nel migliore dei casi, a compiti di surrogazione occupazionale di un’impresa privata mortificata e impoverita. So bene, dal canto mio, cosa esattamente voglia dire l’articolo 4 della Costituzione, secondo il quale la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto. Vuol dire che la disoccupazione deve essere al primo posto nel programma di un Governo rispettoso della Costituzione Vuol dire che l’iniziativa economica, dalla quale soltanto può venire il progresso della società, deve essere favorita; vuol dire che l’impresa deve essere liberata dai mille legacci, dagli irrazionali burocratismi e taglieggiamenti che ovunque la contrastano e le impediscono di assolvere alla sua missione di benessere. L’articolo 4 della Costituzione, però, non può significare, come invece si è sostenuto e si sostiene tuttora tra voi, che lo Stato possa farsi garante, finanziatore o addirittura gestore di attività economiche improduttive, che non accrescono la ricchezza, ma distolgono le risorse dagli impieghi economicamente produttivi Su questi punti, ai fautori della irrivedibilità della prima parte della Costituzione chiediamo la massima chiarezza.

Qual è la loro interpretazione dei diritti sociali? I principi che li esprimono devono essere letti nel contesto di uno Stato sociale, in un sistema di economia di mercato, od in quello di uno Stato assistenziale ad economia collettivista? La prima parte della Costituzione è viva e può essere ancora vitale. Solo alcune interpretazione ideologicizzanti sono divenute obsolete, quando non sono state addirittura travolte dalla storia, come in effetti è accaduto alla pretesa di leggere nell’articolo 4 3 una promessa di collettivizzazione dell’economia, da contrapporre alla libera iniziativa economica garantita a tutti dall’articolo 4L Se viene chiaro e forte, da parte vostra, un pronunciamento sul significato di un ulteriore irrigidimento formale della prima parte della Costituzione; se per voi quell’irrigidimento formale non vuol dire assicurare ultrattività e copertura costituzionale alle dissolute politiche pubbliche che hanno condotto il paese sull’orlo del collasso finanziario, non ho altre obiezioni, per parte nostra non abbiamo altre obiezioni — e parlo a nome di tutto il polo — a che i principi liberaldemocratici, non disgiunti dai principi di solidarietà fra gli uomini e fra le generazioni, intesi finalmente in un’accezione comune a tutti, siano mantenuti a fondamento della Costituzione e dichiarati non rivedibili. Sull’ulteriore irrigidimento e sull’innalzamento dei quorum le mie obiezioni sono di carattere culturale. Se i diritti fondamentali non entrano nella cultura di un popolo, se intorno alla loro portata e al loro reale contenuto non c’è accordo nel paese, non c’è garanzia formale che tenga. Quei diritti sono destinati a non inverarsi e ad essere perenne motivo di conflitto politico, con la conseguenza che quel conflitto, mantenendo ferma la vostra originaria ideologia, l’avrete portato tutto intero nella Costituzione.

Se invece c’è accordo, omogeneità di vedute e chiarezza nella scelta di civiltà, nessuna garanzia è migliore dell’esercizio di quei diritti da parte dei cittadini e del raccogliersi attorno a tali diritti della parte migliore della nostra cultura. Ecco perché nel proporre formali irrigidimenti avete l’onere di dichiarare se volete ritornare all’età del conflitto costituzionale permanente, che sotto le sembianze di interpretazioni divergenti della Costituzione ci ha impedito di avere un sistema unitario, o se volete davvero una Costituzione unica nei suoi principi cardine. E se la seconda è la vostra scelta, la parte sostanziale della nostra Costituzione per noi va bene e deve restare intatta La nostra proposta di elezione diretta del vertice dell’esecutivo non è, del resto, che il tentativo di ampliare e rafforzare il nostro sistema di libertà, proprio a partire dalla libertà politica. Solo assicurando ai cittadini la possibilità di scegliere direttamente chi è destinato a governarli, quel sistema di libertà, che noi per primi vogliamo proteggere, trova il suo punto di riferimento in un Governo trasparente e politicamente responsabile di fronte agli elettori ed il principio di sovranità popolare cessa di essere una vuota proclamazione. Ciascun elettore, grazie alla sua immediata opportunità di opzione, si sentirà immesso direttamente nel circuito della decisione pubblica.

Signor Presidente, signori deputati, nei momenti in cui occorre far funzionare sul serio la democrazia e scegliere per il bene del paese sulla base di proposte alternative tra loro è decisivo trovare un terreno d’intesa sulle regole e sulle garanzie che consentano di fare questa scelta in un clima sereno, in un contesto chiaro, non già di consociazione politica ma di condivisione civile. Il mio vero rammarico è di non essere riuscito ad ottenere prima, quando ne scrissi all’onorevole D’Alema, da leader del polo che aveva vinto le elezioni e da Presidente del Consiglio dei ministri una discussione seria ed impegnativa sul tema delle regole. In quest’ultimo periodo si sono fatti sensibili progressi in questa direzione. Il clima è cambiato; c’è un’aria nuova. Le coalizioni candidate a governare il paese si vanno consolidando nei loro programmi nella scelta degli uomini, nella maturità politica in vista del voto popolare che, da solo, può restituire piena legittimità di funzionamento al sistema politico emerso dalla rivoluzione referendaria del 18 aprile 1993. Non esistono patti surrettizi e non sarà certo il polo delle libertà a coltivare una mescolanza impropria delle identità e delle responsabilità politiche nel senso di un nuovo consociativismo Credo che sul tema della decisione finale, e cioè su quale debba essere la scelta in ordine alla revisione della seconda parte della Costituzione e alla forma di governo della seconda Repubblica, sia possibile trovare soluzioni limpide, che non blindino la Costituzione e la democrazia, che non offen dano il buon senso e che garantiscano tutti che la scelta, reversibile come tutte le scelte democratiche, sarà consapevole e responsabile.

Credo che l’idea di un referendum confermativo, reso comunque obbligatorio, o persino quella di un referendum alternativo, recentemente riaffacciatasi nel dibattito istituzionale, possa esprimere in massimo grado questo elemento indispensabile di garanzia. Credo che agli italiani, che sono gli ultimi giudici di quello che noi qui discutiamo e che hanno il diritto di essere loro a scegliere la forma di governo, possa e debba essere sottoposta, dopo un ampio dibattito nel prossimo Parlamento, la decisione sulle proposte alternative di modifica della seconda parte della Costituzione. Gli italiani sanno scegliere e sanno votare nei referendum, come hanno dimostrato dal 1974 ad oggi, con una puntigliosità e con una capacità di essere liberi che è il tratto migliore della nostra storia

(Il discorso è stato pronunciato alla Camera dei deputati da Silvio Berlusconi il 2 agosto del 1995)