Marine Le Pen (foto LaPresse)

La nemesi no global, fascismo se di destra e chiccheria se di sinistra

Salvatore Merlo

Trump e Michael Moore, Salvini e Carlin Petrini, Le Pen e Latouche

Il paradosso è che quelle stesse cose che loro pensano, che hanno pensato, diffuso o contribuito a diffondere in questi ultimi vent’anni, se le dice Trump, o se le dice Salvini, o se le dice Marine Le Pen, a loro quelle stesse cose fanno improvvisamente orrore – e forse giustamente, aggiungiamo noi, diventano insomma fascismo o rischio antidemocratico, medioevo e fanatismo. Mentre se ad esprimerle è, chessò, il leader degli antiglobal francesi, il contadino verde e baffuto José Bové, famoso difensore del formaggio roquefort e noto incendiatore di ristoranti MacDonalds, allora è tutto un altro paio di maniche. E dunque il culto del suolo, del localismo e della decrescita felice, che sono poi il fondo dello slow food di Carlin Petrini e il principio filosofico altermondista di Vandana Shiva (quella che Veltroni invitava alla scuola di formazione del Pd e che il Vaticano invita a parlare di ecologia) e di tutto il lungo carrozzone della sinistra noglobal, assumono d’improvviso tinte hitleriane da blut und boden, si trasfigurano (o si rivelano?) ai loro occhi, come ha sostenuto il regista americano Micheal Moore, ringalluzzito come non mai, come ai tempi Seattle, o come ha scritto l’economista superstar del “nologo” Naomi Klein.

  

 

  

E allora si capisce bene che, in questo mondo in cui l’informazione è diventata orizzontale e senza filtri, come sognavano negli anni novanta gli attivisti di Porto Alegre, in questa società in cui un americano su due – come dicono le statistiche – si informa attraverso Facebook esponendosi al rischio di assumere informazioni completamente fasulle proprio perché estranee alla logica verticale di un giornale con un direttore e un “padrone”, come dicono esultando Grillo e Di Battista, in questo mondo in cui dunque vince la disintermediazione nemica delle elité e delle caste di tecnici (che siano politici, giornalistici, finanziari o scientifici), in questo mondo che pare uscito dall’utopia di Toni Negri (“Impero e moltitudine”), o da un libro dell’ultimo e socialisteggiante Giulio Tremonti (“Mundus fuoriosus”), ecco si capisce bene come in questo mondo siffatto, ancora una volta, la nemesi abbia compiuto un lavoro limpido e asciutto: per vent’anni la sinistra noglobal ha marciato tra libri, film e manifestazioni di piazza diffondendo come polvere di stelle un pensiero che si è finalmente incarnato, ma nella destra, che avanza dovunque, in Europa e in America.

E forse tutto questo, in fondo in fondo, rivela la natura originaria e profonda del noglobalismo. Li abbiamo letti i libri del filosofo Serge Latouche: in questo pianeta di naufraghi solo la decrescita e il localismo possono salvare, possono rendere felici. Si devono però produrre arance (ma senza pesticidi), si devono allevare mandriate di oche muschiate della Val Pennona, è necessario che si tirino a bordo (ma di barche a remi) belle retate di alici nostrane e mediterranee, è condizione fondamentale che si imbottiglino ettolitri di vino biodinamico privo di solfiti. E così il contadino-allevatore si fa pagare un buon prezzo, compra le alici dal pescatore che intanto compra le arance (ma senza pesticidi) e si fa illuminare e riscaldare la capanna da abitare con l’energia solare ed eolica.

Al fondo di tutto, c’è il principio del localismo: come si fa quando il valore aggiunto non viene più né creato né distribuito su base nazionale? Partiti, sindacati, governi non contano più niente e alla fine la moneta cattiva scaccia quella buona, come scriveva nei primi anni duemila persino Massimo D’Alema (“La politica ai tempi della globalizzazione”), sensibile pure lui ai bacilli di un pensiero che però risultava e risulta accettabile solo se lo esprimono “i buoni”, cioè quelli come Latouche, come Bové, Klein e Petrini… Se invece arriva un puzzone del Front national, o un leghista che sta con Putin perché – sono parole di Lorenzo Fontana, quello che ha portato Salvini a Mosca – “la Russia di Putin non sarà la Grande Madre ma è la sola potenza che si oppone alla mondializzazione, alla sparizione delle patrie”, allora non va più bene. Ed ecco che l’utopia noglobal si mostrifica in distopia fascista, in quella “grandezza e fecondità del suolo e della terra” di cui parlava Hitler nel Mein Kampf. Ma o è sempre destra tragica, destra reale, destra ecologica, quel cosmo di cui Jorg Haider fu moderno precursore in Austria, o non lo è mai. 

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.