Matteo Renzi alla Leopolda (foto LaPresse)

Altro che Sanders-Hillary. L'infinita moltiplicazione delle sinistre pd

Marianna Rizzini
Capita che l’opposizione al premier, negli anni di permanenza di Renzi medesimo a capo del governo e del Pd, si sia distinta a livello non solo europeo ma anche mondiale per capacità di divisione e sotto-divisione in una, due, tre, quattro diverse sinistre.

Roma. Un partito di centrosinistra, una maggioranza e una minoranza: routine negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, sogno (impossibile) di una notte di mezz’autunno  nell’Italia della Leopolda, della post-Leopolda, della Ditta e della post-Ditta. Capita infatti che l’opposizione al segretario del Pd e premier Matteo Renzi, negli anni di permanenza di Renzi medesimo a capo del governo e del Pd (due anni e mezzo), si sia distinta a livello non solo europeo ma anche mondiale per capacità di divisione e sotto-divisione in una, due, tre, quattro diverse sinistre (già scissioniste, semi-scissioniste, quasi scissioniste oppure mai tentate dallo scissionismo). E se è vero che il vizio della parcellizzazione a sinistra non è cosa nuova, è anche vero che a un certo punto, nell’ex Pci-Pds-Ds, ci si era illusi di esser riusciti a superare se stessi al grido di “facciamo il Pd”. Chi doveva uscire era già uscito, chi dissentiva pareva comunque intenzionato ad avviarsi verso una seria carriera di oppositore interno dal fair play anglosassone (modello Bernie Sanders con Hillary Clinton).

 

Poi però, dopo due primarie, un’elezione politica e due cambi di governo, è andata com’è andata, e già l’anno scorso si assisteva a una serie di “abbandoni” non univoci: Pippo Civati e Stefano Fassina fuoriuscivano dal Pd, ma non insieme, quanto piuttosto dialoganti alla lontana. Poi, tra un caso-Marino, un dossier Giustizia e un palesarsi all’orizzonte dello scoglio-referendum (scoglio per tutti: maggioranza e opposizione interna), la cosiddetta “sinistra-pd” cominciava a mostrarsi al mondo in modalità-patchwork: ogni pezzetto il suo colore, nessun pezzetto uguale all’altro. Si è prodotta così, intanto, la specie della post-opposizione (vertice onorario Matteo Orfini, ex dalemiano di ferro poi Presidente del Pd renziano): ecco il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ex bersaniano che considera la vittoria del No come “la vittoria di Donald Trump”, ma in questi giorni dialoga con le Toghe rosse schierate per il No (“la vostra posizione è legittima, ma non legatela alla legge elettorale”, ha detto Orlando, “anche a me non piace ma voto Sì perché la stiamo cambiando”).

 

Ed ecco il ministro per Politiche Agricole Maurizio Martina, ex bersaniano, poi  esponente della “sinistra dialogante” con Renzi, poi governativo di sinistra e ora promotore del Sì, ma senza tono ultrà (della serie: la riforma non è il migliore dei mondi possibili ma “per affermare meglio i princìpi della prima parte della Costituzione c’è bisogno di innovare la seconda”, tanto che qualche tempo fa Martina si è fatto paladino dell’idea “comitati per il Sì”). Ma è nell’opposizione-opposizione, tra i ranghi degli anti-renziani storici, dove concordia  dovrebbe regnare in nome della comune lotta pre-congressuale, che si registrano fenomeni un tempo impensabili, con i cosiddetti bersaniani (nel senso di sostenitori di Pier Luigi Bersani alle primarie del 2013) assiepati sotto tre diverse bandiere. Intanto c’è Gianni Cuperlo, ex dalemiano più di ferro di Orfini, ed ex bersaniano moderato (e tormentato), ora non più dalemiano né bersaniano: due giorni fa, infatti, in giorni di Leopolda, ha firmato “l’intesa cordiale” con Renzi sull’Italicum e ha annunciato che voterà Sì, con dichiarazione sbalorditiva per i compagni di ieri: “Abbiamo ottenuto quel che volevamo, ora voterò Sì, incoerente è chi parla di tradimento, però non chiamatemi renziano”.

 

Poi c’è Bersani-Bersani, l’ex segretario che nel 2015 innalzava al cielo un mite lamento per la Ditta che non era più quella da lui creata, e che adesso si è messo a solcare le terre di Sicilia in prima persona e in nome del No (“questo è il Pd dell’arroganza e sudditanza”, ha detto Bersani dopo che dalla Leopolda si erano innalzati gli ormai famosi “fuori-fuori”, i non anglosassoni cori anti-opposizione). Infine Roberto Speranza, leader della minoranza interna, che si distingue per sfumatura ultra-bersaniana: dice “sono incazzato” e altre cose che Bersani direbbe non fosse Bersani (cioè uno cui ancora pesa sentire Debora Serracchiani dirgli: pensa a lavorare per la Ditta). 

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.