La Commissione P2 di Tina Anselmi e il vaso di Pandora del complottismo all'italiana
La trattativa stato-mafia, le ingerenze americane, la massoneria, Licio Gelli. Così le denunce formulate dall’inchiesta parlamentare dell’ex ministro sono degenerate in grandi tormentoni dalla Prima alla Seconda Repubblica
La scomparsa di Tina Anselmi ha indotto a riprendere la questione della Loggia P2, caso sul quale le spettò la presidenza della commissione parlamentare di inchiesta. La tesi illustrata nella relazione conclusiva redatta dalla Anselmi parla di una associazione segreta che aveva l’incarico di realizzare una specie di colpo di stato in sintonia con indicazioni provenienti dall’America e con la collaborazione della mafia, della massoneria e dei vertici dei corpi dello Stato. Fu la prima volta che in un documento ufficiale approvato dal Parlamento si sostenne l’esistenza di un antistato, promotore di una azione eversiva ordinata da Washington e da realizzare anche attraverso infiltrazioni mafiose. In seguito non è stato provato nulla, le accuse specifiche contro lo stesso Licio Gelli alla fine sono cadute, ma sul piano politico la tematica dell’antistato si è poi rafforzata, le teorie complottistiche si sono moltiplicate, la convinzione di un rapporto inconfessabile tra politica e mafia di tali dimensioni da orientare e condizionare le scelte governative è sopravvissuta ed è infatti ancora oggi la trama fondamentale del teorema farlocco su cui si regge (o meglio traballa) il procedimento palermitano sulla presunta trattativa tra stato e mafia.
La tesi della relazione Anselmi fu contestata all’origine solo dai Radicali, che presentarono una relazione di minoranza contrapposta, in cui si sosteneva che la P2 non tramava un colpo di stato contro i partiti ma che fosse piuttosto un’agenzia dei partiti, o almeno di spezzoni delle forze politiche. Comunque, il duplice tema della manovra americana e dell’infiltrazione mafiosa (che nella relazione veniva fatta risalire addirittura ai tempi dello sbarco in Sicilia delle truppe alleate) ha tenuto banco da allora in poi. Giulio Andreotti, che da varie parti veniva indicato come il crocevia di queste influenze incrociate e inconfessabili, cercò di smarcarsi con una mossa inattesa, quando rese noto che in realtà esisteva una organizzazione clandestina legata all’America, ma che la struttura di Gladio, per quanto segreta, era legale. Probabilmente in America queste rivelazioni non furono gradite, certamente non piacquero a Francesco Cossiga e da lì ebbe origine una tensione tra il presidente della Repubblica e il governo che ebbe conseguenze assai vistose (tali da indurre Achille Occhetto a chiedere di mettere in stato di accusa il titolare del Quirinale).
Le influenze americane sulle vicende italiane sono state spesso esagerate, il che non significa che non ci siano state, anche se non è semplice identificarne i filoni, visto che le agenzie americane, Cia e Fbi, non agiscono di concerto e talora senza collegamenti con l’orientamento del governo (come appare evidente dall’incursione della Fbi nell’ultima settimana dell’attuale campagna presidenziale). Per esempio sono indicative le numerose visite di Antonio Di Pietro all’ambasciata americana, dove non si era dimenticata la “ribellione” di Bettino Craxi ai tempi di Sigonella e le connessioni di varie inchieste politiche con la azione dell’Fbi (comprese probabilmente quelle su Andreotti).
L’altro filone, quello della connessione tra mafia e politica, si è ingrossato fino ad arrivare ai processi contro Giulio Andreotti, conclusi con l’assoluzione ma tenuti in piedi per un decennio e ora incardinati nel procedimento sulla trattativa, destinato a fare la stessa fine. Naturalmente Tina Anselmi non immaginava neppure che la sua interpretazione della finzione della loggia P2 avrebbe dato la stura a tutto ciò. Forse queste tendenze all’interpretazione complottista della storia nazionale avrebbero prosperato comunque, ma vale la pena di ricordare le connessioni che, per quanto involontarie, sono indubbiamente reali.
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